“Dauntsey Park 2”, di Giovanni Frangi, olio su tela del 2012.
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Nuove linee di confine tra forma e figura

Pittura, scultura, disegni e fotografie che mettono in scena il nostro tempo

Apocalittici o integrati? Anche parafrasando Umberto Eco, il dibattito nell’arte resta noiosissimo. C’è la setta pronta a difendere persino una scatola vuota purché abbia il cartellino Senza titolo.

E ci sono quegli altri, i nostalgici del tempo che fu, neotalebani dell’olio su tela, oltranzisti per i quali l’arte sarebbe ormai null’altro che una fabbrica di mostri, una «hybris» colpevole d’aver violato le (presunte) sacre leggi della pittura e dell’umanità tutta.

Meglio allora volgere lo sguardo altrove, a quell’arte che ancora s’appende orgogliosamente ai muri e che vuole farsi guardare: per mettere in scena il tempo presente, per forzare i limiti di tecniche, sguardi, bellezze, certezze.

Eccoci dunque nel pieno di Linee di confine, rassegna collettiva al museo Carlo Bilotti di Roma (fino al 21 giugno), dove Marco Di Capua ha selezionato 17 fra gli artisti più incisivi sulla scena figurativa.

Angelo Bucarelli, Alice Pavesi, Giovanni Frangi, Christian Leperino, Paolo Picozza (solo per dirne alcuni) sfilano con opere dove la scultura si fa parola, o dove la pittura aggiorna la poesia di un Hopper o un Cézanne.

La tecnica dell’olio su tela s’unisce a impasti di bitume, cera fusa e colla per quei visi ritratti che sembrano il contrappunto ideale ad altre facce: a quei calchi di volti, cioè, degli immigrati morti in mare, simbolo del confine che separa le terre dall’acqua come la vita dalla morte.

Benvenuti dunque nel vigore di una figurazione contemporanea che alla tradizione unisce la sperimentazione, all’antico il nuovo. Non si parli però di terza via. Siamo infatti nella stessa maestosa linea che corre fra un Antonio López Garcia, celebratissimo dalla critica, e un Gerhard Richter, premiatissimo dal mercato (con i 29 milioni di euro per la sua Piazza Duomo del ‘68, record assoluto per un artista vivente).

Vero è, come scriveva lo stesso Di Capua su Zeusi, rivista d’arte da lui diretta, che il tedesco Richter, «concettualmente inclassificabile», è riuscito a far dimenticare al pubblico globale «che i suoi sono pur sempre quadri».

Ma proprio questo è il punto. Sarebbe miope ridurre il dibattito alle fazioni contrapposte di post-avavanguardisti e tardo-reazionari, come se il destino dell’arte si giocasse sul filo di una sperimentazione che non è più consentita nel microcosmo pittorico, o nella scultura di figura.

Se l’arte ormai fa notizia soltanto per il prezzo, o per lo scandalo (mai per la qualità), Linee di confine dimostra invece (al di là di scatole vuote o improbabili «ritorni all’ordine») che l’arte contemporanea sa ancora generare quadri e materia, senza perciò sottrarsi alle «prove di realtà» che oggi come ieri nutrono i nostri occhi.

Una casa, un albero, una faccia possono assumere forme inedite ed essere ancora, per tutti noi, figure necessarie: questo sembrano dirci gli artisti. Spetta a noi servircene a piacimento. Per godere semplicemente di una forma. O per aggiornare la nostra visione di un mondo che sposta in fretta le sue linee di confine.

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Antonio Carnevale