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Viaggio (teorico) al termine del populismo

Cosa resterà, in Europa, quando il delicato rapporto attuale tra popolo e potere si troverà a dover cambiare i suoi connotati?

Not in my backyard, non nel mio giardino. Ovunque, ma non qui. Stringi stringi, tutta l’ideologia dei sovranisti anti migranti si riduce a questa bieca forma di egoismo sociale.

Un belga, parlamentare europeo dal nome difficile (Guy Verhofstadt), lo ha detto in settimana in aula senza tanti giri di parole: l’alleanza dei sovranisti europei, trentennale sogno salviniano di una lega delle leghe, s’infrange nel triste spettacolo odierno basato sullo scaricabarile.

I migranti, te li prendi tu

Se poi quel “tu” coincide col fratello sovranista della porta accanto, poco importa. E’ forse giunto il momento di chiedersi se il populismo, oltre alla difesa dell’olio d’oliva e al me ne frego sui vincoli di spesa pubblica, ha qualcosa in più da offrire alle sfide della società moderna.

Non sembra, e anche l’esercito degli odiatori da tastiera che lo supporta (beninteso, lo supporta anche nelle urne democratiche) rischia di finire vittima della medesima post-realtà che ogni giorno contribuisce a diffondere come veleno.

Proviamo ad immaginare, alla fine del tunnel trentennale tracciato da Salvini, quale forma avrà il post-populismo. Innanzitutto dovrà curare le ferite aperte nel corpo sociale.

Quando la Francia di François Mitterand, nel 1981, abolì la pena di morte, ebbe l’intuizione e il coraggio di evitare un referendum popolare. Se i francesi fossero stati chiamati a esprimersi per via referendaria, probabilmente la pena capitale non sarebbe mai stata cancellata dall’impianto penale francese, come invece avvenne per decreto.

Una politica di civiltà che oggi, se ricordiamo le parole del neopremier italiano Giuseppe Conte al momento dell’insediamento, suona come un’eresia. Conte ha sostenuto, infatti, che se essere populisti vuol dire fare ciò che il popolo chiede, allora il suo governo ne rivendica orgogliosamente la designazione.

Quando le pulsioni del popolo saranno soddisfatte - e lo Stato avrà ricevuto tramite la democrazia diretta il potere di sottomettere e punire, chiudere i porti a individui e merci - il popolo medesimo si troverà al capolinea di quest’impari dialettica. S’accorgerà, in parole povere, di aver delegato per intero potere e contrappesi, e gli resterà come sola speranza l’unico principio che credeva invece essere il nemico mortale: la ragione. Cioè l’iniziativa illuminata di una nuova leadership che torni a dare equilibrio tra tutte le componenti del patto sociale: il popolo, i suoi delegati, le sue leggi. Oppure un destino cileno, con un Generale Augusto Pinochet (el Tata per gli estimatori, il Macellaio di Santiago per le sue vittime) che alla fine della dittatura si permette il lusso di restituire al popolo la democrazia liberale tramite un plebiscito per porre fine a 17, non già a 30, anni di regime paternalistico in nome e per conto del popolo (con tanto di celebre riforma delle pensioni) e dell’identità nazionale.

Popolo e potere: il paradosso

Lo stesso paradosso del quale, già oggi, è ironicamente vittima il buon Matteo Salvini. Cioè essere fieramente anti-migranti africani, super identitario in tema etnico, ma alla fine aspirare a un trentennio di potere massimalista, sullo stile del tipico che più tipico non si può uomo forte… Africano! Perché a ben guardare, la differenza fondamentale tra l’ancien régime e il nuovo corso, è tutto nel rapporto tra popolo e potere.

Quando il primo cede alle sirene del populismo, cioè l’illusione di aver trovato l’incarnazione della volontà popolare in un solo uomo o movimento, tutto quello che può ottenere in cambio è, per usare un vocabolario da antico regime, octroyés. Cioè concesso come grazia, proprio come i sovrani concedevano ai popoli le Costituzioni.

Il populismo è lo stesso principio, solo ribaltato. Rappresenta il viatico che porta alla relativizzazione dello stato di diritto. Alla fine del tunnel populista albeggia quindi l’agonia delle garanzie costituzionali.

Non solo, osserveremo probabilmente i resti di un’economia irrazionale: mix autarchico-protezionistico (togliamo a Viktor Orbán i sussidi europei e poi analizziamo l’economia ungherese per ciò che vale da sola) poco aderente ai fondamentali dei mercati odierni.

Del populismo sovranista europeo ci resteranno tante scorte di maalox, forse l’olio di ricino dei tempi moderni, e una lezione sulle scorciatoie: alla fine allungano la strada.

Se trent’anni vi sembrano pochi…

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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