Una nuova guerra civile in Libia
Impasse politica, terrorismo, armi in mano alle milizie, fughe dalle prigioni e dalle ambasciate offrono uno scenario esplosivo
Lookout news
Sin dall’inizio del Ramadan, i ripetuti episodi di violenza in Libia hanno messo in serio imbarazzo il governo di Ali Zeidan, che si è rivelato inadatto a gestire la grave situazione in cui versa il Paese nel post guerra civile, e incapace di garantire un livello accettabile di sicurezza.
La credibilità dell’esecutivo ha subito progressivamente colpi sempre più duri e, negli ultimi giorni, il saldo degli episodi di violenza e terrorismo è particolarmente negativo: solo il 23 luglio tre attentati hanno sconvolto contemporaneamente Tripoli, Sirte e Bengasi, mentre il 25 luglio alcuni razzi RPG hanno colpito l’ambasciata e la residenza dell’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti. Il 28 luglio, inoltre, due attentati dinamitardi hanno colpito rispettivamente il Tribunale di Bengasi e l’ufficio del Procuratore Generale. Ennesimo evento che si somma a una situazione ormai al limite dell’anarchia e che gli Emirati Arabi non hanno esitato a definire “atto terroristico”.
L’assassinio di Al Mismari
Ma l’episodio che desta le maggiori preoccupazioni è l’omicidio di Abdelsalam Al Mismari, avvenuto il 26 luglio scorso, proprio mentre a Bengasi una rivolta all’interno del carcere di Al-Kuwayfiyya (sostenuta anche dall’esterno) permetteva l’evasione di oltre mille detenuti.
Mismari non era un uomo qualunque: avvocato e noto attivista, era stato un leader della prim’ora nella rivoluzione di febbraio che ha deposto Gheddafi. Sostenitore accanito dello stato laico, quando Bengasi è stata liberata venne scelto per recitare la dichiarazione della rivoluzione. In quelle parole, che invocavano la nascita di uno stato di diritto, laico e democratico, c’era forse già la sua condanna a morte. E, certamente, le sue invettive contro i Fratelli Musulmani in Libia non gli hanno giovato.
L’omicidio di Mismari porta così il numero di assassinii politici dopo la fine della guerra civile a quota 61 (solo a Bengasi), il che significa che se ne verifica mediamente uno ogni dodici giorni. E i segnali per il futuro prossimo non promettono bene: solo poche ore dopo l’assassinio, su internet è apparso un elenco anonimo con i nomi delle prossime vittime potenziali, molte delle quali espressione della società civile e sostenitrici d’istituzioni laiche e indipendenti.
Il ricatto politico
Il primo ministro Zeidan, di fronte al repentino precipitare degli eventi, per adesso ha potuto solo minacciare di sciogliere il governo. Cosa che, a sua volta, ha indirettamente minacciato anche l’Alleanza delle Forze Nazionali guidata da Mahmud Jibril, manifestando la volontà di uscire dal parlamento. Mentre, da parte sua, gli islamisti della Fratellanza hanno messo in guardia dal ripetersi di uno “scenario egiziano” in Libia, invocando lo spettro di un complotto ordito da lealisti del vecchio regime.
Il nesso causale con il terrorismo è dato anche dall’impotenza delle forze dell’ordine: dal crollo del regime di Gheddafi, infatti, il governo non ha avuto altra scelta che affidarsi in buona parte alle milizie regionali (spesso nate dalla necessità) che avevano conquistato territori importanti o vinto le battaglie-chiave, ponendole a guardia delle frontiere e a difesa delle istituzioni.
Questo fatto, però, ben presto ha creato una situazione di ricatto al governo e di sproporzione di poteri: non solo perché oggi sono le milizie a comandare direttamente in numerose aree della Libia, ma anche perché sono loro a detenere le armi, leggere e pesanti (alcuni di loro possiederebbero centinaia di carri armati), e a deciderne l’uso.
Se una parte consistente degli arsenali libici sono finiti al mercato nero gestito dai signori della guerra, le rimanenti armi in mano alle milizie che difendono il Paese portano non di rado a episodi come assalti agli uffici ministeriali, per ottenere soldi o concessioni su determinate questioni d’interesse privato.
La ricostruzione dell’esercito
E se la ricostruzione dell’esercito nazionale è all’impasse (per non dire che è un disastro politico), l’idea di formare una “forza di pace” - ossia un apparato di sicurezza stimato in 30mila effettivi, che includerebbe numerosi ex ribelli - non va meglio e non trova consensi.
La proposta, avanzata dal presidente della Commissione Parlamentare per la Sicurezza Nazionale Al-Yasir, non è ancora stata discussa dal parlamento, che già alcuni membri della stessa Commissione si sono detti contrari.
Meglio, dicono, sarebbe consolidare le forze di sicurezza già esistenti, in primo luogo l’esercito e la polizia. Ma il programma è lungo e incerto soprattutto perché, nel frattempo, c’è da difendere una nazione dal caos. Che la Libia sia ormai prossima a una nuova guerra civile, infatti, è quasi un dato di fatto e la decisione di diversi Paesi di chiudere le proprie rappresentanze diplomatiche a Tripoli va nella stessa direzione. Fonti molto affidabili hanno riferito, ad esempio, che la stessa ambasciatrice americana, Deborah K. Jones, avrebbe già lasciato la Libia, a poche settimane dalla sua nomina.