L'America e il prezzo dell'inaffidabilità
Barack Obama @ Flickr
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L'America e il prezzo dell'inaffidabilità

Lo shutdown americano non è solo un danno politico economico ma un grave stop alla diplomazia e alla credibilità USA

Lookout news

Non si è voluta trovare un’intesa sul finanziamento della macchina statale americana. Si è ricattato il Congresso degli Stati Uniti e il suo presidente per impedire che “Obamacare” - la tanto sognata riforma che modificherebbe l’approccio statunitense all’assistenza sanitaria se -prenda piede a detrimento dello strapotere delle lobby assicurative e chimico-farmaceutiche.

 

E ora si rinuncia persino agli stipendi dei governativi. Che non significa soltanto chiudere la Statua della Libertà o il Parco di Yellowstone, significa anche non avere più le coperture per i numerosi diplomatici di Washington nelle sedi estere, dall’Italia all’Iraq, dal Pakistan all’Afghanistan, con conseguente imbarazzo e disorientamento degli stessi, circa il da farsi in questi uffici nei prossimi giorni.

 

Non è un bel risultato. E, senz’altro, non è un passo in avanti per l’immagine già vacillante degli Stati Uniti “all round the world”. Il fatto che Wall Street non si curi più di tanto di questo momentaneo stop (non è il primo nella storia degli Stati Uniti e non sarà neanche l’ultimo) e sia preoccupata piuttosto della quotazione in borsa di Twitter - prossimo a sbarcare sul mercato azionario con un’Opa da un miliardo di dollari - non significa che tutto sia sotto controllo.

 

Il treno perso in Asia

 

Il mercato azionario e il mondo virtuale sono sì un buon refugium peccatorum, ma ciò non basterà al Paese più influente al mondo per risollevare la propria immagine, che inizia a dare preoccupanti segni di decadenza e le cui conseguenze sono insondabili.

 

Nonostante l’economia americana vanti risultati eccellenti - ad esempio in campo energetico - lo scivolone dello shutdown in casa propria ha già impedito a Barack Obama di farsi vedere in Asia per l’importante tour che, tra Corea, Taiwan, Giappone, Filippine e altri Paesi del sud-est, avrebbe dovuto sancire nuove alleanze strategiche volte a estromettere la Cina, competitor più che naturale in questa regione, dall’espansione nel Pacifico.

 

Alle riunioni politico-economiche dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) e dell’Apec (Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica) è così dovuto andare il solo Segretario di Stato, John Kerry, che ultimamente non ha accumulato risultati proprio soddisfacenti, vedi le magre figure collezionate relativamente alla Siria, e che pertanto non appare in grado di trasmettere molta fiducia negli investitori del mercato asiatico.

 

 

A proposito di Medio Oriente

 

Come può un presidente azzoppato in casa propria - le questioni dibattute al Congresso si riverberano su qualcosa come 800mila posti di lavoro pubblici - pensare di fungere da dominus nello scacchiere internazionale? Non può farlo. E, infatti, non lo fa.

 

A un passo dall’attacco in Siria, debole nei sondaggi e incerto nei risultati del Congresso, Obama ha prudentemente rinviato il voto di Capitol Hill. Che dunque sia stata una costrizione più che una scelta è sin troppo evidente: gli Stati Uniti non hanno scelto di puntare tutto sulla diplomazia, ma vi sono stati costretti.

 

E anche se la copertura finanziaria per il governo federale alla fine si troverà, è il dato politico di un’Amministrazione sotto ricatto a sancire una sonora sconfitta per gli USA nella loro interezza: così, non solo si assentano dal Pacifico e dall’Asia, non solo si vedono messi all’angolo da Russia e Iran sul Medio Oriente, ma subiscono anche una marginalizzazione dei rapporti con alleati-chiave.

 

Il prezzo dell’inaffidabilità

 

Ed è proprio l’inaffidabilità il peggior risultato cui è giunta la presidenza Obama. Essere considerati partner affidabili, lo sappiamo bene noi italiani che paghiamo ogni giorno sui mercati le nostre incertezze politiche, è la moneta di scambio che oggi ha più valore nel mondo globalizzato.

 

Il venir meno delle certezze sugli Stati Uniti sta già portando altri Paesi dell’orbita occidentale a fughe in avanti del tutto indipendenti e slegate dalle alleanze note. Un fatto che dimostra come non esista più un potere centrale bilanciato dalla stabilità nei rapporti di forza, e come non si riesca a rintracciare una dialettica efficace tra governi che orienti le scelte di campo.

 

E ciò non si applica soltanto all’economia ma vale anche per la politica nel suo senso più alto, che ricomprende anche l’etica. Se ci aggiungiamo, infatti, che adesso persino gli interlocutori governativi, ovvero coloro che dovrebbero provvedere al trait d’union tra Paesi amici, non ricevono più lo stipendio a fine mese, non si può che sancire la fine morale del sogno americano.

 

Si assiste oggi, nel mondo filo-occidentale, a una fase involutiva di rapporti tra alleati, dove ogni Paese si richiude in se stesso e adotta politiche solipsistiche che non offrono molti margini alle trattative. Israele non crede più nell’aiuto americano, qualora dovesse aggravarsi lo scontro con l’Iran e perciò ha previsto piani di guerra preventiva che non contemplano l’alleato americano. L’Arabia Saudita ha deciso di rifornirsi altrove per le armi e le nuove tecnologie, perché la monarchia teme di essere abbandonata a se stessa in caso di minaccia alla sovranità. L’Egitto dei militari è sempre più freddo con gli USA dopo il loro sostegno ai Fratelli Musulmani. Anche l’Europa, dove già Angela Merkel è stata sorpresa a guardare con crescente complicità verso Mosca, appare sempre più distaccata.

 

Se dunque l’equilibrio si sposta a Est, come risponderanno gli Stati Uniti?

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Luciano Tirinnanzi