Sla Borgonovo
ANSA / MATTEO BAZZI / PAL
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Sla, ecco perché uccide i calciatori

Uno studio dell'Istituto Mario Negri di Milano svela i legami tra il calcio e la Sla

15 gennaio 1989. È il novantesimo minuto. Allo stadio Artemio Franchi di Firenze si gioca Fiorentina -Juventus. La palla va in calcio d’angolo. La battuta dalla bandierina è affidata a Roberto Baggio. Che calcia al centro dell’area. Stefano Borgonovo, col numero 9, si stacca in elevazione, colpisce di testa e buca la rete di stefano Tacconi. I due, coppia dal gol in quel campionato, corrono sotto la Curva Fiesole che esplode di gioia, come l’intero stadio, come tutta la città.

Nove anni dopo, nel 2008, Roberto Baggio e Borgonovo sono di nuovo sotto la curva dei tifosi viola. Ma stavolta il codino più famoso del calcio italiano spinge l’amico su una carrozzina. Borgonovo sta giocando la sua partita più difficile, quella contro la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, una delle malattie più misteriose, spietata nella sua progressione, che porta alla paralisi dei nervi e dei muscoli fino alla morte. Quella partita Borgonovo la perderà nel 2013. Come tanti altri suoi compagni. Perché chi gioca a calcio si ammala con doppia frequenza, e prima, di Sla, detta anche morbo di Gerigh. Ormai è provato scientificamente.

Lo rivela uno studio dell’Istituto farmacologo Mario Negri di Milano che Panorama ha esaminato. Il sospetto di una correlazione tra il mondo del calcio e la malattia non è nuovo, ma stavolta il campione di popolazione analizzato è più ampio e lascia pochi dubbi. Gli scienziati hanno analizzato tutti i giocatori di calcio che comparivano negli album delle figurine Panini dal campionato 1959-1960 fino a quello 1999-2000: 23.875 calciatori di serie A, B e C presi in esame, la cui carriera è stata ricostruita dai ricercatori del Mario Negri coordinati da Ettore Beghi, capo del laboratorio di malattie neurologiche, uno dei massimi esperti di Sla. Tra quei giocatori, 32 hanno contratto il male. Significa che si sono ammalati il doppio rispetto alla popolazione generale.

Soffermandosi solo sulla serie A, il rapporto è addirittura sei volte superiore. Non solo. Gli ex professionisti si ammalano prima, in media intorno ai 43 anni, rispetto ai 65 anni della popolazione. Lo studio, durato cinque anni, è stato condotto dalla dottoressa Elisabetta Pupillo e si è avvalso del parere di esperti come Nicola Vanacore dell’Istituto superiore di sanità e Letizia Mazzini dell’ospedale universitario di Novara. I risultati saranno presentati ufficialmente a maggio a Filadelfia, al meeting dell’American academy of neurology. Ma perché il calcio sembra essere un acceleratore di questa patologia che attacca i neuroni motori?

Il procuratore di Torino Raffaele Guariniello fu il primo, alla fine degli anni Novanta, ad aprire un’inchiesta per provare a spiegare il numero elevato di morti bianche nel mondo del calcio. Raccolse i dati dei calciatori scomparsi per la malattia e ipotizzò un coinvolgimento di sostanze dopanti. In realtà, emerse che il doping non c’entrava affatto. E allora perché questa coincidenza nel mondo del pallone? Stefano Borgonovo, che ha creato una fondazione che finanzia la ricerca, fu uno dei casi più eclatanti. Il calciatore esordì nel Como, dove tornò a fine carriera come allenatore. E proprio la sua squadra è stata una delle più flagellate, negli anni, dalla Sla. La colpa fu data ai pesticidi usati per il prato del campo. Ma non è mai stato possibile stabilire un rapporto di causa ed effetto. E anche i pesticidi uscirono dalla lente di ingrandimento degli studiosi.

Oggi Beghi prova a tracciare una linea e a fare la somma degli studi da lui condotti fino a oggi. E anticipa a Panorama quelle che potrebbero essere le cause scatenanti della Sla. Però ci tiene a non criminalizzare il calcio: «L’esordio della malattia ha implicazioni genetiche di predisposizione. L’attività sportiva non fa male in sé, ma a certi livelli può anticipare l’insorgenza del morbo nei soggetti predisposti». Quest’ultimo studio, spiega Beghi, raccoglie l’eredità dei tre precedenti che hanno permesso di restringere il campo delle responsabilità.

Una prima ricerca del 2012 accertò che i malati di Sla erano più frequenti tra coloro che avevano subìto traumi ripetuti. Un dato apparentemente neutro, ma significativo se collegato ad altre ricerche. Come quella del 2014, sempre del Mario Negri, in cui emerse che l’età media di insorgenza della malattia si abbassava nei soggetti che avevano praticato attività sportiva di una certa intensità. In pratica, nei soggetti predisposti, coloro che svolgono sport si ammalano prima della media della popolazione generale. Questi risultati, letti alla luce dei nuovi studi, permettono di avanzare un’ipotesi:

«La Sla ha cause molteplici ed è evidente l’interazione tra geni e fattori ambientali. Tra questi ci sono l’attività fisica intensa e i traumi ripetuti, da quelli più lievi a quelli che rendono necessario un ricovero ospedaliero. I ricercatori puntano l’attenzione anche sulle possibili interazioni con molecole presenti in determinati antinfiammatori, se i soggetti ne avessero abusato. Non a caso certe molecole contenute in questi farmaci sono simili a quelle di alcuni pesticidi». Non solo. «Anche gli aminoacidi ramificati» aggiunge Beghi «potrebbero avere una responsabilità. Sono molecole che il nostro organismo sintetizza naturalmente, ma resta da chiarire il loro ruolo in caso di assunzioni esagerate, come talvolta capita agli atleti che vogliano aumentare le prestazioni».

In conclusione, questa scoperta getta luce sui meccanismi, tuttora oscuri, della malattia, aiutando a comprendere che la Sla risulta da una complessa interazione tra fattori genetici e fattori esterni. «Purtroppo gli studi non permettono ancora di introdurre misure volte alla prevenzione della Sla» conclude Beghi. «Ma l’aver capito che svolgere attività sportiva a livello intensivo può anticipare un processo degenerativo ci permette di progettare ulteriori ricerche su malattie che con la Sla hanno elementi in comune, come l’Alzheimer e il Parkinson. Detto questo, voglio ribadire: giocare a calcio non fa male. Anzi».

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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