Giovanni Senzani: "Ho ucciso, ma solo ora  ho capito che cos’è la morte"
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Giovanni Senzani: "Ho ucciso, ma solo ora ho capito che cos’è la morte"

Era il capo delle Brigate Rosse, adesso arriva al cinema protagonista del film Sangue. Per la prima volta Giovanni Senzani accetta di parlare. "La scomparsa di mia moglie mi ha rivelato il dolore di una perdita". "Il perdono? È pornografico".

Seduto davanti a un tavolo di cucina, nel quartiere pasoliniano di Monteverde, Giovanni Senzani non si toglie la giacca e neanche la sciarpa nera, come se il freddo non lo abbandonasse mai: «A camminare sotto la neve c’eravamo tutti, tutti i compagni, venuti a dare l’ultimo saluto a Prospero. E lì ho avuto la percezione assoluta che la nostra storia era finita. Era il funerale di Gallinari, ma era anche un nuovo funerale di Moro. Era il funerale della guerriglia. La neve quel giorno ha seppellito tutti, ha seppellito anche le nostre vite».

 

 Per la prima volta dopo anni di silenzio, l’ex capo delle Brigate rosse, il criminologo, il professore universitario e consulente del ministero di Grazia e giustizia, l’uomo condannato a sette ergastoli, l’assassino di Roberto Peci, ha deciso di parlare con un giornalista. Invecchiato, sordo da un orecchio, vestito sciattamente, i braccialetti di stoffa su un polso, le mani «che hanno sparato», come dice lui, tozze e callose, i denti rovinati, gli occhi persi dietro gli occhialetti alla Gramsci.

 

Sembra il protagonista di Delitto e castigo, un Raskolnikov invecchiato e chiuso nella «cupa sensazione di tormentosa, sconfinata solitudine e di distacco da ogni cosa», mentre sul tram guarda la città dove ha vissuto i suoi primi anni felici di matrimonio e poi i giorni crudeli della lotta armata.

 

«Venni a Roma con Anna nel ’69» racconta «e quando sono sceso dal treno mi ha fatto effetto vedere i suoi luoghi preferiti. Ricordo che alla sera andavamo in macchina sulla piazza del Campidoglio, vivevamo in centro in una bella casa vicino a piazza di Spagna. Quando entrai nella lotta armata, invece, vissi solo in periferia: luoghi assurdi, incredibili, come Grotte Celoni. Posti situati nel nulla, ragazzine troppo truccate che facevano le vasche. Noi, brigatisti, aspettavamo gli autobus per ore in quel nulla, perché non potevamo muoverci in macchina. Fui arrestato alla stazione di Tor Sapienza, Anna non sapeva neanche dov’era, lei quelle borgate non le aveva mai viste».

 

Senzani accetta l’incontro insieme al regista Pippo Delbono, che l’ha voluto nel suo ultimo film, Sangue. È il racconto delle due morti parallele della madre del regista e della compagna dell’ex brigatista, avvenute a una settimana di distanza. «Ho fatto un film con un ex brigatista, non sulle Br» puntualizzaDelbono. D’altronde il sangue percorre, per vie diverse, le vite di Senzani e di Delbono. Ma quel film ha scatenato indignazione e polemiche quando è stato presentato al Festival di Locarno, dove ha vinto anche un premio. Perché, come spiega Delbono, «è un viaggio dentro la morte, dentro la verità. Perché per ricominciare bisogna conoscere il proprio passato».

 

Senzani, lei lo conosce il suo passato oppure ha avuto bisogno di questo film per tirarlo fuori davanti al pubblico?
 Il mio passato rimarrà sempre con me, so quello che ho fatto. Ma che senso ha dire, adesso, mi rammarico, sono dispiaciuto? Non sono pentito della mia vita, ho fatto quelle cose, mi accompagneranno sempre. È una ferita che non può guarire.

 

Lo sa che Gian Carlo Caselli, l’ex magistrato, a proposito di «Sangue» ha dichiarato che il suo è uno show indecente?
 Caselli forse non ha visto il film. Anche quando racconto del momento più drammatico dell’uccisione di Peci, io vivo la mia storia con dolore, non cerco con questo film di riabilitarmi o di rieducarmi. Non ha rimorsi per quello che ha fatto, per tanto sangue? Non sono pentito, non posso dirlo, non ha senso dirlo. E poi in Italia il pentimento è solo un do ut des per ottenere qualcosa, è una categoria che serve solo per trattare con lo Stato.

 

 In «Sangue» racconta un fatto molto privato, la malattia e la morte della sua compagna. La morte che sembra presentarle il conto…
 Quando nel 2004 uscii dal carcere trovai Anna ad aspettarmi, mi aveva atteso per 25 anni. Credevo che avremmo potuto ricominciare a vivere. Stavamo partendo per Londra, la sua città preferita, quando scoprì che aveva un tumore. In tre anni le sono stato sempre vicino, poi peggiorò, era ormai una vita tra parentesi. Se ne è andata velocemente. Allora ho capito che la morte è uguale per tutti, sia quando la subisci, sia quando la dai. Ha sempre lo stesso significato.

 

Quale?
  Leggevo Leopardi, lo Zibaldone e ci trovavo il mio dolore: ti sconvolge l’assenza, soffri per la scomparsa. E allora ho sentito il dolore di tutti quelli che la morte l’avevano incontrata per mano mia. È un dolore universale, che mi ha fatto capire quello che avevo fatto.

 

La morte di sua moglie Anna l’ha fatta ragionare sul dolore dei parenti di Roberto Peci?
 Ho perso una compagna molto amata, ora so che significa perdere marito e padre, com’è stato per moglie e figlia di Peci. Non ha desiderato mai di essere perdonato? Dovrei dire: scusatemi, ho ucciso? Io non credo nel perdono, non mi permetterei mai di chiedere perdono, mi sembra un’offesa. Mi sembra pornografico andare davanti a qualcuno, cui hai ucciso il padre o il marito, e chiedere perdono. È banalizzare il dolore.

 

 La figlia di Roberto Peci ha chiesto molte volte di poterla incontrare. Lei non ha mai voluto?
 Sono assolutamente disponibile a incontrarla: ma in privato, non davanti alle telecamere come voleva lei. Le direi che suo padre era una persona molto dignitosa, forte.

 

Nel film dice che come atto di pietà dopo averlo ucciso gli toglieste la benda per vedere se era morto. Ma di che pietà parla?
Ho vissuto quella scena molte volte, la desolazione terribile di quel casolare, scoprire gli occhi a quell’uomo morto e il suo urlo che rimane. È la pietà di fronte alla morte. «Uomo, non si può vivere del tutto senza pietà». Lo scrive Dostoevskij in «Delitto e castigo». Io non sono nato per uccidere. Certo che sentivo quello che avevo fatto. Quando militi nella guerriglia sai che è così. Dentro la guerra c’è la morte. Il ricordo rimane lì, ma non è un problema di rammarico. È una cosa che sai, se entri nella lotta armata.

 

Sembra quello che diceva Eric Priebke, il criminale nazista: ero in guerra e in guerra si spara, si uccide. Si è sempre giustificato così. Ma lui non aveva nessun rimpianto per la morte. E lei?
Se dovessi guardarmi allo specchio e pensare che quello che ho fatto non ha avuto senso, potrei solo suicidarmi. E invece un senso ce l’aveva? È stato un momento storico, noi abbiamo creduto di realizzare un sogno. Quando sono stato arrestato non ero convinto che fosse finita, neanche all’inizio in carcere. Non ho patteggiato, ma non ho mai detto: che bello quello che ho fatto.

 

Come ha passato vent’anni in carcere?
 Ho studiato: ero laureato in legge e sociologia e volevo laurearmi anche in lettere. Ho dato un esame monografico su San Francesco. Mi piace il suo concetto di cristianesimo.

 

Anna non ha mai condiviso la scelta della lotta armata?
No, è sempre stata contraria.

 

Come ha potuto vivere con una contraddizione così in famiglia?
Avevo un lavoro importante all’università, due figlie, ero consulente al ministero, ma pensai che se ero coerente con il mio pensiero politico dovevo entrare nella lotta armata. Anna non era d’accordo, ma non potevo fare diversamente: è stato come tagliarmi le braccia, ho rinunciato alla mia famiglia, all’amore, ho sacrificato tutta la vita per un ideale. Ora capisco che fu una scelta egoistica, la sua vita dipendeva dalla mia. Era incatenata a me.

 

Cosa le successe quando lei fu arrestato?
Le fecero pagare tutto. Lavorava da Feltrinelli e venne licenziata; l’università non voleva darle i miei stipendi arretrati; per vivere si adattò a fare la cuoca nella mensa della scuola francese a Firenze. Allevò da sola le nostre bambine, le portava in carcere a trovarmi, le difendeva quando le volevano spogliare per le perquisizioni. Mi ha sempre aspettato. Poi un giorno, poche settimane prima di morire, mi disse: «Sto per andare via, e tu resterai solo». Lo disse in modo violento. Lei era forte, io sono un uomo fragile.

 

Come ha vissuto dopo?
Vivo come se ci fosse ancora, nella casa arredata da lei, circondato dalle sue cose, vivo da solo, leggo, vado al cinema, ho visto Il capitale umano. Mia figlia mi ha chiesto perché non scrivo un libro: «Su mio padre ho letto le cose più tremende, ora devi spiegarmi tu». Non scriverò per giustificarmi, ma per capire. Anche io voglio capire.

 

Ma cosa deve ancora capire?
 Non ho mai abbandonato il marxismo e le mie idee, ma voglio studiare quello che è capitato, voglio collocarlo storicamente. Noi abbiamo tentato di realizzare la dottrina di Karl Marx, ma solo la borghesia ha saputo usarlo bene. Carlo De Benedetti o Diego Della Valle, loro sì lo hanno capito. Noi abbiamo compreso tardi che il comunismo realizzato è diverso da quello teorico.

 

Quando è uscito dal carcere che mondo ha trovato?
 Un mondo molto diverso, globalizzato, dove non esisteva più la centralità della classe operaia. Da libero ho vissuto l’11 settembre 2001. Ero a Firenze, in casa editrice. All’inizio non ci credevo, le avevo viste quelle due torri nel ’72 quando ero in America a insegnare all’Università di Berkeley. Ho pensato che se il terrorismo era arrivato a quel punto, il livello dello scontro si era innalzato tanto che non aveva più senso. Quella devastazione porta morte e non cambia nulla. Ho capito che non ha senso colpire al cuore dello Stato. Non serve a nulla.

 

Che effetto le fa la nostra politica?
Ho dovuto ascoltare Massimo D’Alema dire che Matteo Renzi non è di sinistra. Perché, lui lo è? È ridicolo. Renzi è uno che non si dà pace, lavora in continuazione. È veloce, e un programma lo ha di sicuro. È paradossale che mi trovi qui a lodare Renzi... Eppure le Br scardinarono la Dc, ma gli schieramenti che hanno governato fino a oggi sono peggio di quelli di allora. Le Br non capirono Aldo Moro, il suo spessore politico era molto più alto di quello delle Br. E non lo dico per santificarlo.

 

 Le Br diedero anche un bel colpo al Pci.
Eh no: quello se lo è dato da solo, non siamo stati noi. Basta vedere com’è finito. La storia racconta di vincitori e vinti.

 

E voi che, nella prima scena di «Sangue», sfilate al funerale di Gallinari, avete perso.
Hanno perso tutte le grandi rivoluzioni: quella russa è fallita tra le macerie, quella cinese è solo un simulacro, quella cubana ha avuto effetti ambigui. Il marxismo ha dato molto, ma non ha risolto la questione. Le Br sono state una piccola esperienza, non si può dargli troppa importanza. Era già scritto che sarebbero state sconfitte: erano partite da un’idea giusta, ma sono finite su una strada sbagliata.

 

Dove vede il fallimento?
  Come si poteva pensare di cambiare il mondo, di portare in poco tempo il proletariato al comando, quando la borghesia ci ha messo secoli per arrivare al potere? Pensavamo di arrivarci da una scorciatoia, ma abbiamo fallito. La rivoluzione ha fallito.

 

«Sangue» per Delbono è anche un film sull’amore: lei sa parlare dell’amore?
  L’amore lo capisci dopo la morte; io l’ho capito quando ho perso Anna.   

 

 

 

                                      

 

 

 

------------PARLA IL REGISTA. Il regista di «Sangue»: «Nessun discorso politico» Pippo Delbono ha conosciuto Giovanni Senzani alla fine di un suo spettacolo teatrale: il loro incontro e la coincidenza di due morti, la madre del regista e la compagna dell’ex brigatista, sono alla base del film Sangue (in sala a Milano e a Roma; a Napoli, Bologna e Bari dal 10 febbraio). «Non mi sono mai interessato di politica, né di terrorismo» spiega Delbono. «Il film non apre un discorso politico, è il racconto di due persone smarrite, che partendo dalle macerie delle loro vite raccontano le macerie del mondo». Ma a questo film dolente e melanconico vengono imputati gli ultimi dieci minuti, dove Senzani racconta l’uccisione di Peci. «La gente si meraviglia di quella scena dove appare cinico e distaccato. Ma quando l’ho filmato era solo un uomo per la prima volta davanti a una telecamera che veniva giudicato da un pubblico sconosciuto». (T.M.)  

IL PROCESSO A PECI

 

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Terry Marocco