Sanità VS Burocrazia: ma può un primario aggiustare una barella?
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Sanità VS Burocrazia: ma può un primario aggiustare una barella?

Una continua lotta contro difficoltà materiali, «scartoffie» e tempi morti delle decisioni amministrative. Intanto, però, devono prendersi cura dei pazienti e gestire il lavoro della loro équipe. È la quotidianità dei responsabili degli ospedali italiani. Purtroppo spesso costretti a funzioni di cui non dovrebbero occuparsi.

Un giorno qualunque di novembre, in un grande Pronto soccorso italiano, il primario si aggira sconsolato nello stanzone soprannominato il «cimitero delle barelle». Ce ne sono una ventina: tutte inutilizzabili, alcune rotte già da settimane. Tutto perché è scaduto il contratto del fabbro che le aggiustava, occorre quindi indire un’altra gara (perché Anac impone la rotazione degli incarichi) e tra burocrazia, MePA, determine e ricorsi, il risultato è che mentre le barelle giacciono nel «cimitero», fuori dal Pronto soccorso le ambulanze fanno la fila con i malati a bordo: perché i pazienti non si sa proprio dove metterli. Mentre quella stessa ambulanza dovrebbe invece affrettarsi a soccorrere un infartuato o la vittima di un incidente. «A volte mi viene la tentazione di aggiustarle io» scherza amaramente con Panorama il primario, che preferisce restare anonimo. «Poi penso che non sia il caso, dato che non è proprio il mio lavoro. Ma la frustrazione è tanta, perché in ospedale tutto è correlato. Se qui si rompe una barella i guai sul sistema e sui pazienti si susseguono a cascata. E la responsabilità è comunque mia».

Nel fantastico mondo della sanità italiana, dove il classico Butterfly effect - ovvero, se una farfalla batte le ali a New York può generare un uragano a Pechino - vuol dire la differenza tra la vita e la morte, succede che i primari (o direttori), il cui compito sarebbe quello di garantire i migliori standard di cura, si sono trasformati in manager, facilitatori, magazzinieri, procacciatori di fondi, «stalker» delle direzioni generali per sollecitare decisioni e fondi dovuti, responsabili approvvigionamento e presto, perché no, forse anche fabbri. Per una retribuzione che, nel «pubblico», oscilla tra i 4.300 e i 4.500 euro al mese.

Soprattutto iperboli a parte, questo è un bene? «Sicuramente no, anche se è vero che la possibilità di incidere sui processi gestionali è fondamentale» spiega Silvio Danese, direttore dell’Unità di Gastroenterologia ed endoscopia digestiva dell’Irccs Ospedale San Raffaele. «È ovvio, però, che se un primario deve dedicare parte del proprio tempo ad attività burocratiche, di budget e di organizzazione, è costretto a ridurre l’attività clinica. A volte io, scherzando, dico che la mia stanza è come un “confessionale”, dove tutti vengono a scaricare problemi di qualsiasi tipo e si aspettano che li risolva subito. Ecco, a tutto quanto detto prima aggiungerei il fatto che il primario oggi è spesso visto innanzitutto come un “problem solver”, un dispensatore di soluzioni».

Le cose si complicano ulteriormente quando lo stesso direttore ricopre anche funzioni di professore. «Un primario universitario» conclude Danese «deve essere aggiornato su tutto ciò che c’è di nuovo, perché la medicina, ormai, cambia ogni settimana. Insegnare ai giovani richiede tempo aggiuntivo, e quindi noi dobbiamo essere manager, clinici e formatori. La mia strategia è comportarmi come il ct di una squadra di calcio: circondarmi di collaboratori ultraspecializzati, che siano i migliori nel loro campo. Così il reparto non solo funziona, ma cresce». Non più quindi il primario alla Alberto Sordi (alias Guido Tersilli) che passa in rassegna i malati, ma più un tipo alla José Mourinho, che cerca di guidare il reparto verso il successo, nonostante tutto: perché oggi l’ospedale è un’azienda, con logiche dipartimentali che obbligano i direttori a raggiungere gli obiettivi, a ogni costo.

«Soprattutto nei reparti di Emergenza/Urgenza, la “distanza” tra primario e pazienti può essere notevole» spiega Paolo Groff, direttore del Pronto soccorso dell’Ospedale di Perugia. «Noi siamo responsabili del funzionamento globale del reparto e abbiamo tantissime mansioni, che vanno dal controllare che non si sforino gli orari, che i numeri dei ricoveri non siano troppo alti - perché il taglio dei posti letto ci tiene in uno stato di difficoltà - fino al gestire il burnout del personale e padroneggiare i sistemi di approvvigionamento. Inoltre, organizziamo il lavoro in processi e dove riscontriamo un problema, dobbiamo saperlo e risolvere. E in tutto questo lavoro, siamo soli».

Una sorta di solitudine dei numeri primi, e se è vero che questo è l’ospedale contemporaneo, frutto dei tagli alla sanità degli ultimi decenni, è altrettanto vero che i primari diventano tali grazie a un curriculum clinico: tenerli impegnati a fare altro è uno spreco di competenze. E di denaro. Senza considerare che inchiodarli agli obiettivi da raggiungere (per esempio, per i Pronto soccorso di alcune regioni, l’85 per cento dei pazienti va dimesso entro otto ore) può rivelarsi pericoloso ed esporre a casi di malasanità. Un po’ diversa è la situazione dei primari chirurghi, che ancora oggi sono comunque - quasi - sempre in sala operatoria o in corsia. «Io considero un valore aggiunto del mio lavoro il saper cumulare le competenze» afferma Antonino Spinelli, direttore dell’Unità operativa di Chirurgia del colon retto dell’Humanitas di Milano. «Il fatto che noi primari dobbiamo, per esempio, tenere sotto controllo sostenibilità e budget, è parte integrante della nostra responsabilità. Ma questo non ha mai ridotto la mia attività clinica né quella in sala operatoria. Ogni giorno dell’anno, anche quando sono assente, ricevo due report per ognuno dei pazienti ricoverati, quindi ho il polso del reparto».

Ma a volte non basta: e allora, anche qui, torna l’importanza della squadra e del saper «formare». «Ovvio che il primario debba essere sempre disponibile per ogni dubbio clinico» conclude Spinelli. «Ma un altro nostro importante compito è individuare e far crescere nel tempo figure competenti che, in nostra assenza, possano consigliare eventuali decisioni delicate o coordinare le attività cliniche». E se la prossima volta che entriamo nostro malgrado - da pazienti - in un ospedale e ci chiediamo perché il letto traballi o perché l’asciugamani ad aria (prezioso perché abbassa drasticamente il rischio di infezioni ospedaliere) sia rotto, anziché imprecare, pensiamo alle nuvole. Cosa c’entra? «Esiste una burocrazia che sovrasta tutti noi» conclude Groff. «Non c’è mai un solo ufficio al quale chiedere le cose, sono almeno tre, e la persona con cui interloquisci non è mai quella che decide. Noi lanciamo le nostre istanze in una specie di “cloud”, una nuvola fitta di richieste che aleggiano sugli uffici, in attesa che qualcuno intercetti proprio la nostra e abbia la possibilità di dire ok, si compra». Fino ad allora, in caso di ricovero incrociamo le dita, portiamoci gli asciugamani da casa e preghiamo di non beccarci la salmonella, magari solo perché la richiesta del primario/manager è rimasta lassù, a vagare tra le nuvole.

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Maddalena Bonaccorso