La paura del Coronavirus è quella dell'ignoto
(Ansa)
Salute

La paura del Coronavirus è quella dell'ignoto

Le epidemie hanno fatto la storia dell'umanità ma le reazioni degli uomini sono sempre le stesse. Ma la paura si può superare, con la conoscenza e la corretta informazione

«La mattina del 21 giugno 1630 verso le quattro e mezza una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia a una finestra di un cavalcavia che allora c'era al principio di via della Vetra de'Cittadini… vide venire un uomo con una cappa nera e il cappello sugli occhi». Comincia così il racconto storico di una psicosi collettiva che Alessandro Manzoni pose in appendice ai "Promessi Sposi" con il titolo "La Colonna infame". Era in corso la guerra dei Trent'anni, tra il 1629 e il 1633, quando i lanzichenecchi portarono la peste e il primo a essere contagiato fu un certo Antonio Lovato che, avendo portato a casa da Chiavenna abiti acquistati ai soldati. Morì poco dopo. La virulenza del contagio aumentò con il passaggio delle truppe, sicché in pochi mesi Milano era in piena emergenza e in preda a psicosi collettive. Le autorità, nonostante l'allarme, rimase latitante lasciando la città in mano ai monatti che, con i cadaveri, raccoglievano anche le loro ricchezze e ai frati cappuccini che assistevano i moribondi al Lazzaretto.

Lo speciale di Panorama.it sul Coronavirus

Cominciò così il clima di paura collettiva che si trasformò nella ricerca giudiziaria di ipotetici colpevoli. Si sospettava che nemici del ducato di Milano avessero assoldato personaggi senza scrupoli per sviluppare il contagio indebolendo così il fronte interno e che agissero ungendo la città con pozioni venefiche. L'uomo identificato dalla testimonianza di Caterina Rosa fu il Commissario di Sanità Guglielmo Piazza che venne accusato di ungere porte e muri del quartiere ticinese per diffondere la peste. Il pover uomo dopo tre giorni di tortura fece il nome di Giangiacomo Mora, un barbiere che, come d'uso all'epoca, curava le ferite e faceva salassi. La tortura fece confessare una colpa inesistente e il processo si concluse con la condanna a morte per ruota di entrambi.

Nell'Ottocento fu la volta del colera che fece riemergere ataviche paure insieme al timore di venefici creati per colpire i poveri dai ricchi possidenti che, questa volta in Basilicata, divennero i nuovi untori. Sarà Giovanni Verga nel 1887 a raccontare la paura e la ferocia collettiva nella novella 'Quelli del colera'.

La psicosi contro le pandemie è antica quanto il mondo e ciclicamente timori e ossessioni di contagio si trasformano in fenomeni di discriminazione e violenza alla folle ricerca di un colpevole per tentare di mettere fine ad un incubo. Stesse emozioni portò con sé la peste nera raccontata da Boccaccio nella Firenze del Trecento, portando a fenomeni di autoflagellazione per scansare il castigo divino e alla caccia agli ebrei accusati di avvelenare l'acqua dei pozzi.

Anche la più grande pandemia capitata all'umanità, quell'influenza spagnola che tra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone in tutto il mondo, cercò i suoi colpevoli ed essendo esplosa nel secolo della Modernità ebbe pure la colpa della disinformazione. La notizia del contagio, tenuto nascosto dalla censura di guerra, fu riportata solo dai giornali spagnoli (la Spagna non era coinvolta nel conflitto) lasciando passare per anni la malattia sotto silenzio. A quanto pare la storia insegna.

Esiste un filo conduttore di questa tragica psicosi millenaria, ma, diversamente da quanto possa apparire, non è l'odio. Semmai è la paura. Se il sonno della ragione genera mostri tra questi mostri sicuramente vi è la paura che toglie all'uomo ogni razionalità. Il filosofo Stefano Zecchi sottolinea come dovrebbe essere questo sentimento il vero tema centrale toccato dalla comunicazione nell'attuale emergenza del Coronavirus.

«Il timore del contagio – dice Zecchi - equivale al timore dell'ignoto e può tradursi in fenomeni di puro isterismo spinti dall'esigenza di trovare un colpevole e, in tal modo, porre fine a un incubo. In questi ultimi giorni, invece di parlare di paura, veniamo condotti in dibattiti su razzismo o intolleranza che deviano l'attenzione dal problema. Analizzando le reazioni collettive sulla base del senso di paura, offrendo magari sostegno e risposte, il dibattito permetterebbe alla realtà di essere più forte delle fantasie. Bisogna accettare l'insicurezza della realtà, ma anche rimanere lucidi e mettere in primo piano gli strumenti reali. Far comprendere i rischi, ma anche le possibilità per combattere le criticità con cui la realtà ci mette in gioco».

Le riflessioni di un filosofo non si discostano molto da chi vive quotidianamente l'esperienza della paura. Lo psichiatra Carlo Saffioti ha esperienza della paura non solo attraverso la sua professione ma anche come componente dell'ospedale da capo della Associazione Nazionale Alpini. Ha vissuto situazioni di emergenza umanitaria in Armenia, Bosnia, Albania, Sri-Lanka, Haiti, in cui la popolazione, duramente colpita da guerre o catastrofi naturali e sottoposta al rischio di pandemie con il venir meno della rete igienico sanitaria si trova quotidianamente di fronte a paure tangibili e intangibili.

«La paura – racconta Saffioti – è un'emozione importante e utile che fa parte della natura umana. Quando sfugge al controllo della razionalità travolge l'equilibrio di una persona ed è in grado di generare una sorta di 'contagio' psicologico diventando un'emozione di massa con caratteristiche regressive e deresponsabilizzante, in cui ogni razionalità viene messa da parte. A quel punto si innesca un meccanismo proiettivo di difesa senza alcuna base razionale, che è alla base della ricerca di un capro espiatorio. Più la paura è distante dalla razionalità più è dannosa. La buona comunicazione, la fiducia, la serietà dell'informazione sono l'antidoto necessario. Senza mistificare, enfatizzare o sminuire la gravità dei fatti, il compito delle autorità e della comunicazione (specie di una comunicazione globalizzata) è offrire strumenti di semplice interpretazione e mettere le persone di fronte all'efficace semplicità della realtà. Azionare il ragionamento nei confronti di un rischio contagio anche accettandone l'insicurezza è il primo tra gli antidoti poiché offre a tutti la possibilità di essere coscienti dei rischi reali ma anche della possibilità di difendersi, non solo dal contagio ma anche dalla paura che non ci permette di vivere a occhi aperti la realtà».

I più letti

avatar-icon

Elena Fontanella