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(Ansa)
Salute

Quei dubbi sulle classifiche degli ospedali italiani di Agenas

Tra software ospedalieri non integrati, dati nudi e crudi elaborati senza possibilità di interazione, ospedali di frontiera e flussi dell’Emergenza e Urgenza a volte difficili da tradurre, si riscontrano alcune incongruenze

Quando si parla di salute, le classifiche sono importanti. Sapere che si verrà curati in un ospedale d’eccellenza, con performance altissime, tempi d’attesa contenuti e ottime percentuali di sopravvivenza tra i pazienti, non è certo come scoprire che il reparto dove si è ricoverati è -magari- il peggiore d’Italia.

Ecco perché quando Agenas -cioè l’“Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali”, ente pubblico che svolge un servizio di supporto alle strategie di governo in campo sanitario- pubblica i dati raccolti tra tutti gli ospedali d’Italia divisi per ambiti di cura, e indica quali sono le strutture più virtuose e quali meno, l’interesse dell’opinione pubblica è giustamente enorme.

Ed è proprio quello che è successo pochi giorni addietro, con la pubblicazione del PNE 2023 (Programma nazionale Esiti) relativo all’anno 2022; un documento che svolge il lavoro di monitoraggio e analisi delle cure erogate in Italia negli ospedali pubblici e privati e che studia le performance prendendo in esame gli esiti, cioè il “come è andata a finire” di determinate procedure sanitarie, monitorando trattamenti come l’intervento di bypass aorto -coronarico, le operazioni di colecistectomia o per cancro alla mammella e pancreas, o i parti cesarei, o ancora le operazioni per la frattura del femore: stabilendo, infine, quali ospedali hanno agito bene e nei tempi stabiliti dalle linee guida, quali hanno buone o ottime percentuali di sopravvivenza dei pazienti a trenta giorni dall’intervento, e quali purtroppo no.

E anche se Agenas ci tiene sempre a sottolineare che il Programma Esiti, lungi dal voler essere una classifica, è un osservatorio permanente sui processi e sugli esiti dell’assistenza sanitaria, e pertanto prezioso strumento che, prendendo in esame numerosissimi parametri “permette di far emergere le criticità assistenziali e individuare puntuali strategie correttive, anche attraverso l’organizzazione di attività di audit clinico-organizzativo utili a migliorare la qualità delle cure” etc etc, va da sé che i titoli dei giornali si concentrano sui “migliori” e sui “peggiori” ospedali d’Italia, notizie che guadagnano sempre il favore dei lettori e dei social.

ECCELLENZE ORTOPEDICHE SOLO AL SUD

Ma è tutto oro quel che luccica? Ce lo siamo chiesti andando un po’ più in profondità tra le classifiche dei vari ambiti di assistenza e cura, al di là del primo e migliore ospedale in classifica che quest’anno è l’ottimo (fuor di dubbio) Istituto clinico Humanitas di Rozzano, con una valutazione di qualità alta o molto alta in 7 delle 8 aree cliniche (dal cardiocircolatorio al respiratorio, dalla chirurgia generale alla chirurgia oncologia, osteo-muscolare, nefrologia etc) prese in considerazione.

Onore al merito. Ma, appunto, andando a leggere un po’ tra le righe del rapporto, emergono dati che risultano essere di non troppo lineare comprensione e che vorremmo, pertanto, provare a indagare meglio. Anche perché il PNE è uno strumento che accompagna Regioni e Province autonome anche nell’individuazione delle strutture private accreditate da contrattualizzare in base alla loro aderenza agli standard di qualità: tradotto, ci sono molti interessi, anche economici, in gioco soprattutto in tempi di PNRR.

Per quanto riguarda, per esempio, l’area che prende in esame il numero di pazienti con frattura del collo del femore, over 65, operati entro le 48 ore dall’arrivo, tra le 10 strutture migliori in Italia, ben 4 sono siciliane, e si tratta degli ospedali Umberto I di Siracusa (primo in classifica tra gli ospedali di tutta Italia) S. Giovanni di Dio di Agrigento (terzo in tutta Italia), Giovanni Paolo II di Sciacca e della “Casa Di Cura Latteri Valsalva” di Palermo.

Senza alcuna volontà polemica e senza fare alcuna discriminazione geografica, viene da chiedersi dove siano finiti, in questa “classifica” i grandi ospedali ortopedici d’eccellenza del Nord Italia, dato che tra i 10 “Best” per il femore troviamo solo un ospedale lombardo, l’Humanitas di Rozzano, e nessun altro. Cosa dovrebbe pensare, un paziente lombardo che si trova in un ospedale della sua regione con il femore rotto? Che avrebbe fatto bene, o meglio, a romperselo ad Agrigento, piuttosto che a Brescia?

Magari sì, o magari la realtà non è proprio così lineare e legata esclusivamente ai dati nudi e crudi e agli indicatori presi in esame: perché andando a cercare informazioni, per esempio, sul S. Giovanni di Dio di Agrigento scopriamo che l’ottimo –secondo questi dati- reparto di ortopedia in pratica non esiste più. Il primario, Giovanni Palmisciano, si è dimesso, e in ottobre se ne è andato anche praticamente tutto il suo staff: 3 medici su 5. I restanti due sono esonerati dalla sala operatoria, quindi in pratica senza aiuti da altri ospedali in questo ospedale non si riuscirebbe più a operare. Ma se un reparto funziona così bene, perché i medici lo abbandonano?

AREA CARDIOLOGICA E TURISMO SANITARIO

Proseguendo tra gli ambiti di intervento, anche nell’area cardiologica riscontriamo risultati davvero eclatanti per le regioni del Sud: per esempio, riguardo alla tempestività di accesso (entro 90 minuti) all’angioplastica coronarica nei pazienti con infarto miocardico acuto, tra i Best italiani troviamo la Casa di Cura Città di Lecce (primo posto in Italia), l’Azienda Ospedaliera Universitaria Mater Domini di Catanzaro, di nuovo (come nel caso del femore) l’ospedale Giovanni Paolo II di Sciacca,, un altro siciliano e cioè l’ospedale S. Antonio Abate di Erice, e anche qui solo una struttura lombarda: l’ospedale di Chiari (in provincia di Brescia). Nessun ospedale veneto, nessun ospedale emiliano: solo un piemontese, l’Ospedale degli infermi di Ponderano-Biella.

Benissimo, tutto questo non può che farci piacere, perché vorrebbe dire che l’annoso gap di trattamento tra Nord e Sud, quello che causa tuttora un fenomeno di “turismo sanitario” che è costato alla Sicilia circa 2 miliardi di euro fluiti dalla casse della Regione Siciliana a quelle delle regioni del Nord negli ultimi 10 anni (dati Corte dei Conti) e che ha consentito invece a regioni virtuose come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna di incassare 14,9 miliardi di euro dalle regioni meno “funzionanti”, si va man mano riducendo: dato che abbiamo scoperto che le eccellenze si trovano -almeno in determinati settori- nel meridione d’Italia. Oppure potrebbe anche esserci un problema di comunicazione di dati, o di poca integrazione di sistemi informatici, o di qualsiasi altro intoppo che possa in qualche modo inficiare il sistema degli indicatori.

Anche perché, sempre come controllo incrociato con gli stessi dati Agenas, andando a vedere l’area cardiovascolare nella sua interezza, che considera quindi non solo i tempi di intervento per angioplastica, ma anche dati incontrovertibili come la mortalità per infarto a 30 giorni, la mortalità a 30 giorni per scompenso cardiaco congestizio, bypass, per sostituzione valvole cardiache e riparazione di aneurisma, ecco che le eccellenze si ribaltano: non troviamo praticamente nessun ospedale del sud. L’unica struttura a raggiungere livelli di qualità “molto alti” è l’ospedale Careggi di Firenze, e tra le 17 con livello “alto”, tra i quali Fondazione Monzino di Milano, S. Orsola di Bologna, Poliambulanza di Brescia, Mauriziano di Torino, S. Raffaele di Milano, Policlinico Gemelli di Roma, il più a sud è il “Ruggi” di Salerno.

Dati, in questo caso, in linea anche con le “classifiche” che ogni anno pubblica Newsweek con il supporto della società di ricerca globale “Statista”, che tra i migliori venti ospedali del mondo in ambito cardiologico (in tutto il mondo, non solo Italia) piazza al 19* poso il cardiologico Monzino e al 20* il San Raffaele.

IL “CASO” SANREMO

E c’è anche un “caso”: o meglio, ce ne sono molti, ma non è esattamente facile (eufemismo) convincere medici e primari a rilasciare interviste. Il primario del reparto di Cardiologia dell’ospedale Borea di Sanremo, invece, va dritto al punto e dopo la pubblicazione del PNE che piazza il suo reparto nientemeno che all’ultimo posto in Italia, non ci pensa due volte a dire quello che pensa: “Io contesto in maniera decisa i dati Agenas” dice il dottor Fabio Ferrari “per il semplice motivo che nel nostro caso non corrispondono con quelli reali, dato che l’agenzia si basa sulle SDO (schede di dimissione ospedaliera) e non sul nostro software ufficiale di refertazione. Il fatto è che le SDO vengono compilate al momento, appunto, delle dimissioni, mentre il nostro sistema dettaglia in maniera ultra precisa i tempi di intervento sul paziente colpito da infarto, che nel nostro caso sono assolutamente nella norma. In altri ospedali i due sistemi (SDO e software interno) sono evidentemente integrati, saranno più bravi in campo burocratico, nel nostro no: ma siamo medici, non burocrati, e premesso che stiamo lavorando per integrarli e che quindi c’è anche una nostra mancanza, sarebbe bastato non prendere i dati “nudi e crudi” e fare una verifica incrociata per ottenere le performance reali”.

Invece, il Borea –pur con tempi e performance perfettamente aderenti alle linee guida- si ritrova all’ultimo posto, il peggiore d’Italia per tempi di intervento, e quindi sotto audit: mentre la popolazione del ponente ligure che fa riferimento al nosocomio sanremese è giustamente in grande allarme.

“Siamo sotto accusa anche per via del numero di interventi di colecistectomia” continua Ferrari “che risultano troppo bassi, quindi non abbiamo raggiunto la soglia minima e siamo risultati non idonei: e qui la spiegazione è ancor più paradossale. L’ospedale infatti è stato riservato Covid fino a metà del 2022, pertanto i nostri numeri sono riferiti a circa 6 mesi e non a 12. Ma Agenas queste cose le sa, essendo un’agenzia governativa, e a mio parere avrebbe dovuto tenerle in considerazione. Auspichiamo che venga fatta più attenzione, dato l’impatto che queste classifiche hanno sia sugli ospedali sia soprattutto sui pazienti, che magari si allarmano inutilmente. Ci sono tantissime variabili da considerare, quando si parla di argomenti così delicati”.

“SIAMO MEDICI E NON COMPUTER”

La prende un po’ più sportivamente il direttore sanitario del Galeazzi S.Ambrogio di Milano, il dottor Fabrizio Pregliasco, il cui ospedale quest’anno non è entrato nella top 10 dei migliori, in nessun ambito, pur essendo da tempo un’eccellenza riconosciuta, come tutte le strutture del Gruppo San Donato: ma in questo caso c’è una spiegazione diversa, che il direttore prova a commentare: “Questo tipo di classifiche non mi convincono mai fino in fondo, e devo dire che un po’ mi spaventano” spiega Pregliasco “Spesso le differenze di punteggio sono talmente minuscole che sono come i millesimi di secondo nelle gare di sci o di nuoto: e questi millesimi fanno la differenza tra chi è virtuoso e chi no. Detto questo: il Galeazzi S.Ambrogio nasce appunto dall’unione di due ospedali, quindi abbiamo avuto un periodo di rodaggio, un riadattamento dell’organizzazione che probabilmente ci ha penalizzati. In campo ortopedico siamo stati primi per anni: contiamo di riallinearci in tempi molto brevi”.

Ma detto questo, qualche sassolino dalla scarpa se lo toglie anche il più che pacato Pregliasco, soprattutto andando a considerare i parametri che vengono utilizzati da Agenas per i punteggi: “E’ ovvio che il fattore tempo è importante, perché il paziente anziano con frattura del femore va operato il prima possibile” spiega ancora il direttore “L’anziano fragile, infatti, se rimane allettato per troppo tempo entra in una spirale negativa: è a letto, non mangia, respira male e va in un corto circuito che può anche ucciderlo. Ma detto questo, c’è tutto un insieme di altre cose da considerare: c’è l’aspetto dell’accoglienza, della strutturazione, del recupero post-operatorio, della riabilitazione, di come questo anziano operato al femore torna a casa, e se a breve va incontro ad altri problemi correlati all’operazione. Invece si va a misurare un procedimento così tanto complesso su un parametro, che a volte, può anche essere dovuto solo alla fortuna”.

Quindi, anche se i parametri tenuti in considerazione da Agenas sono effettivamente molto numerosi e vanno a indagare anche il rischio clinico e gli esiti di determinate procedure, potrebbero essere ulteriormente ampliati: “Di certo sarebbe auspicabile” conclude Pregliasco “migliorare l’interscambio e la comunicazione, che al momento è praticamente a senso unico e basata sul dato nudo e crudo, che può essere anche falsato da inconvenienti tecnici o altro. Occorre un monitoraggio continuo, visibile, che gli ospedali possano esaminare per capire se possono esserci comunicazioni errate o disfunzioni dei sistemi informatici: perché siamo medici, non computer”.

SCHEDE DI DIMISSIONE OSPEDALIERA E FLUSSI “EMUR”

Un altro problema che molti primari e direttori sanitari mettono in evidenza è il rapporto e l’integrazione tra le famose “SDO”, cioè le schede di dimissione ospedaliera che tracciano in qualche modo la storia e la cronologia di tutti i ricoveri, e i flussi “EMUR”, cioè quelli dell’Emergenza-Urgenza: in parole povere, i tempi e le attività dei Pronto Soccorso, tutto ciò che succede prima dell’arrivo del paziente nel reparto di degenza. L’analisi integrata di questi due documenti dovrebbe consentire ad Agenas di calcolare i tempi degli interventi e delle procedure, andando per esempio a stabilire se effettivamente un anziano viene operato per la frattura del collo del femore entro le “famose” 48 ore dall’ingresso, che consentono all’ospedale di essere definito virtuoso.

Ma tornando a esaminare le strutture migliori proprio in questo campo, troviamo alcuni ospedali che non hanno il Pronto Soccorso. In questo caso, il parametro viene conteggiato solo sulle Schede di Dimissioni Ospedaliere (non potendo essere presenti i dati di flussi dell’emergenza-urgenza) ma è ovvio che la procedura fa letteralmente saltare il banco, dato che si vanno a paragonare due cose diverse. Perché un anziano che arriva in quelle strutture potrebbe anche aver passato 12 ore in un Pronto Soccorso di un altro ospedale, i cui flussi di dati non sono però visibili nelle Schede di dimissione.

Non è “colpa” della clinica, nemmeno del Pronto soccorso da cui il paziente proviene, ma è evidente che due dati, per essere paragonati, devono essere omogenei. In altre parole, sarebbe molto più corretto e indicativo di buona performance se le 48 ore si calcolassero dall’arrivo in pronto soccorso piuttosto che dall’ingresso in reparto, che talvolta avviene dopo molte ore o addirittura giorni.

Sempre tenendo conto che si parla di obiettivi di salute per i cittadini, e non di una corsa alla migliore posizione in classifica che, tra processi complessi e non sempre omogenei e indicatori derivati da flussi informativi diversi, rischia di inficiare la tranquillità e la consapevolezza di moltissimi pazienti, oltre che la reputazione di tanti medici. Medici, appunto: non computer.

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Maddalena Bonaccorso