Il riscatto per Greta e Vanessa e la debolezza occidentale
ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Il riscatto per Greta e Vanessa e la debolezza occidentale

Una condanna per mancata spartizione del bottino fa emergere la verità e la realtà di una parte del mondo che continua ad alimentare la guerra santa

La verità ha strani modi per uscire allo scoperto, imprevedibili. L’ultimo riguarda i riscatti. Anzi, un riscatto in particolare: quello pagato per Greta e Vanessa, le amiche inseparabili rapite in Siria lo scorso anno mentre si illudevano di distribuire kit di sopravvivenza ai bambini ma che finirono nel tritacarne bellico delle bande islamiste dopo essersi affidate a guide infedeli.

Due ragazze ingenue e terribilmente avventate, vittime di una propaganda politico-ideologica terzomondista e anti-israeliana che le aveva portate in piazza a sventolare bandiere anti-imperialiste e poi sul campo di battaglia.

Le stesse organizzazioni umanitarie più avvedute, che si muovono con cautela per evitare di trovarsi nella condizione di non poter più muoversi né operare (arrivando a disertare le aree considerate a ragione proibitive), avevano criticato quel modo dilettantesco di andare allo sbaraglio.

Il sequestro di un operatore umanitario crea problemi a tutti gli altri, allontana gli aiuti da quelle zone, rinfocola la guerra, crea pericoli per la popolazione civile.

Il modo strano in cui è emersa la verità sul riscatto (pagato evidentemente dall’Italia anche se la Farnesina smentisce) per Greta e Vanessa, è un banale processo a uno dei capibanda, uno sceicco che avrebbe intascato ben 5 dei 12 milioni e mezzo di dollari (circa 11 milioni di euro) spillati dai jihadisti al nostro governo (che non potrà non continuare a negare). Lo sceicco è stato condannato da un tribunale islamico.

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In pratica, veniamo a sapere del riscatto e della sua entità (non irrilevante) attraverso la condanna per la mancata spartizione del bottino.

Due considerazioni: pagare un riscatto significa alimentare uno dei settori più ricchi del business della Jihad. Significa alimentare il terrorismo e i mezzi di cui può disporre, mantenerne gli uomini, incitare di fatto a commettere altri sequestri. L’industria dei riscatti finirebbe senza i riscatti. E non ci sarebbero più rapiti.

Per questo (e arriviamo alla seconda considerazione) gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno tenuto per anni una linea di assoluto rigore: no a riscatti, no a trattative su riscatti, no ad aiutare i parenti a pagare riscatti. Solo ultimamente Barack Obama ha ritenuto opportuno, per ragioni probabilmente di politica interna, allentare questo rigore sostenendo che i familiari debbano comunque essere aiutati e in ogni caso non vadano perseguiti se tentano di stabilire un contatto e trattare.

Da queste due considerazioni discende che l’Occidente ha una strategia debole, o meglio non ha una strategia univoca su come reagire ai rapimenti (alcuni pagano senza dirlo, altri negano categoricamente ma in realtà trattano), perché di fronte alla scelta che sarebbe logica (mai trattare, mai pagare) tentennano e finiscono col piegarsi alla pressione della pubblica opinione.

Nessuno crede che gli occidentali vengano liberati in cambio di nulla. L’imbarazzo ipocrita di fronte alla notizia del versamento di un riscatto nasconde l’incertezza di una politica e di una comunicazione inadeguate, la stessa assenza di una linea comune sui bombardamenti in Siria e su con chi schierarsi in Medio Oriente. Dev’essere chiaro, invece, che pagare un riscatto significa prolungare la guerra santa.

Ve le ricordate?

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo lasciano in auto la caserma dei Carabinieri dopo l'iterrogatorio, Roma, 16 gennaio 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

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