Renzi e l'inglese con i sottotitoli
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Renzi e l'inglese con i sottotitoli

Sui social spopola il discorso del premier a Venezia con un inglese maccheronico. E c'è molto (o poco) da ridere

C’è poco da ridere. Imperversano sui “social” l’integrale e le chicche dell’improvvido discorso a braccio di Matteo Renzi a “Digital Venice”, primo vero appuntamento della presidenza italiana dell’Unione Europea, in un inglese tragicomico e improbabile. Facile sbeffeggiarlo riportandone la traslitterazione scandita da quel terribile “de-de-de-de-de”, ripetizione a mitraglia dell’articolo “the” pronunciato in modo incomprensibile (segno di spaesamento, dell’incapacità di portare a termine le frasi). 

Gli effetti esilaranti sono tanti: da Meucci, l’inventore del telefono che diventa un uomo dei nostri giorni (l’inglese è perentorio, il presente vale per i vivi e non per i morti), alle pronunce che stravolgono le parole (come “process”, che Matteo pronuncia “prosex” e in inglese suona “pro sesso”). Non è solo un problema di accento, ma di pronuncia, grammatica, sintassi, significato. Non è inglese, neanche lontanamente. “She” viene pronunciato “Scisc”. Saltano le concordanze, “sentenze” intere rimangono totalmente misteriose. Nei momenti topici non aiuta la mimica del premier: i sorrisini scolastici d’imbarazzo, gli sguardi persi nel vuoto, la ricerca di complicità e assistenza nei vicini di banco (il ministro Madia in primis). 

In passato, avevamo premier incapaci di spiccicare una parola straniera. Erano i tempi della Prima Repubblica. In seguito, abbiamo avuto ministri degli Esteri che hanno studiato per imparare l’inglese, e in qualche modo se la sono cavata. Altri, in nome del prestigio nazionale, hanno preferito continuare nelle occasioni ufficiali a parlare italiano pur conoscendo bene l’inglese (vedi Enrico Letta). Non erano ancora i tempi della “generazione Erasmus”, ragazzi che vanno all’estero a studiare e si fanno in cento pur di riuscire a capire e farsi capire nel mondo globale. Con Renzi siamo rimasti alla generazione Telemaco, al massimo alla de-generazione Erasmus. Ai più o meno giovani del “vorrei ma non posso” che si lanciano ugualmente, esponendosi al ludibrio generale, spesso drammaticamente inconsapevoli. In Italia può apparire perfino simpatico il discorso di Renzie-Totò, ci si può identificare in quanto specchio di una gioiosa spavalderia tutta italica. Ma il mondo ci ride appresso. 

E sorge spontanea un’altra “question” (domanda): ma quando Renzi parla nei vertici con Cameron, Obama o la Merkel, usa o no l’interprete? Perché se non vi fosse accanto a lui qualche diplomatico o interprete, avrei paura di quello che possono capire i suoi interlocutori, e soprattutto di quello che può “capire” lui. Nei colloqui internazionali valgono le sfumature, i toni, non si deve soltanto conoscere bene l’inglese ma di più, padroneggiarlo per leggere tra le righe. Non è un “pro sesso” facile. Un po’ di umiltà, a volte, non guasta.  

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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