To read or not to read
Ho sempre letto. Per delizia e per evadere. Comunque non ho imparato niente. Non sono una persona colta. Non ho memorizzato neanche le date delle guerre mondiali. Ora ho cancellato i social dal telefono e mi dedico ai sudoku in attesa che passi la tempesta d'ansia e torni il sole insolente e mascalzone a illuminare i libri.
Ho cancellato le applicazioni social sul telefono.
Il male non sta nelle le cose, ma nell’uso che le dai, dice la saggezza popolare, sia che si parli di droghe, grassi saturi, parenti di primo grado o applicazioni sul cellulare.
Allora diciamo che le uso male.
Diciamo anche che ho tanti piccoli e medi tempi di attesa: attendo che l’acqua bolla, che le mie figlie escano da scuola, di danza, dal bagno; che tocchi a me per numero o per ordine d'arrivo, e molto ogni tanto, che si asciughi lo smalto.
Per non entrare nel merito delle cose che attendo o spero per le quali non c’è sportello né scadenza.
E io in quei tempi uso male alcune cose. A volte uso male il frigo, altre il cellulare.
Ho sempre letto. Per delizia e per evadere, leggere è stata sempre una via di uscita. Leggendo uscivo dal pullman nel quale viaggiavo, e così non pensavo più che per sei ore avrei respirato il respiro di altri quarantacinque e che quello sarebbe stato il mio ossigeno. Leggevo sul water, sulle panchine, nell’ora di fisica.
Ma il telefonino è meno nobile del libro. Scandalosamente meno. E non dico scandalosamente solo per fare effetto. Ma perché non pensi mai che una persona incollata al telefono sia molto colta, non vedi la copertina di ciò che legge, non ti viene voglia di andare a prendere quel titolo. E poi c’è il tatto, la sensazione del libro in mano. Il libro è una donna, lo schermo una bambola gonfiabile.
Sono feticista della carta senza metafore. Della carta che si riempie di polvere, che se la sfiori male ti taglia, che odora, che è più o meno ruvida, che ti pesa in mano. Che occupa spazio e invita a una scelta.
Comunque non ho imparato molto. Non sono una persona colta. Non ho memorizzato neanche le date delle guerre mondiali. Se mi facessero una di quelle interviste con le domande che devi sapere, sarei la dimostrazione del fallimento dell’educazione degli anni 80-90, o la dimostrazione del fallimento che vogliano dimostrare in quel momento (partito politico, piano educativo, consumo di carne settimanale, la nocività di essere il figlio di mezzo, ecc).
Perciò, se credete che leggere sia utile per imparare tante cose, per quanto riguarda la mia esperienza, vi consiglio di lasciare stare. Potrebbe rivelarsi un’attività frustrante che vi allarga il sedere per niente.
Guardando la mia libreria pensavo appunto che potrei rileggere tutto da capo come se fosse la prima volta. I ricordi dei libri sono un mistero.
Cosa mi è rimasto, per esempio, di tutto Proust? Un viale alberato che mi ricorda quando a otto anni un mio cugino stanava i ragni e gli bruciava con un accendino.
Di Delitto e castigo? La disperazione che ho trovato più avanti nella vita, quando tradisci te o qualcun altro, e credi che possa non fare effetto.
De La peste? Una domanda: come mai lui non si è contagiato?
Cent’anni di solitudine? Che bello chiamarsi Buendìa e che caldo umido in quelle strade.
Anna Karenina? L’ultima scena e che delusione.
Flaubert? Una panchina in un giardino.
Rayuela? Il Gioco del mondo di Cortazar me lo ricordo intero a memoria, anche all'incontrario, ma questa è un altra storia e lui è un mago.
Ma di facebook cosa mi resta? La sensazione che la vita degli altri o è un inferno perenne, o è un sorriso costante. Niente di questo mi serve ora.
Cosa mi serve ora? In questo periodo la sera compilo sudoku difficili per far fronte all’ansia. E vado dal dentista a sentire che sono sdraiata, non devo fare niente, e due persone (escludendo la segretaria, altrimenti salgono a tre) si occupano di me.
Sì, ho provato anche con i professionisti del caso. Considerando che ho lo psichiatra a casa e non volevo chiedere riferimenti a lui, ho chiesto consiglio alla mia amica psicanalista argentina che mi ha indirizzato ad uno bravo qui in Italia. Gli ho scritto. Mi ha risposto di chiamare a settembre. Ho chiamato. Niente. Ho lasciato un messaggio. Niente. Ho richiamato e parlato con una segretaria di voce piacevole che mi ha chiesto: età, condizione lavorativa, origini (se proprio parliamo di origini dovrei dire italiane, tedesche, austriache, urugaiane, ma ho sintetizzato con findelmondana per accontentare i dubbi sul mio accento) e percorsi psi precedenti. E al momento niente. Forse non ho passato il test. Sarò stata la tipica quarantenne sudamericana casalinga con una paio di analisi alle spalle, la quale ansia possiamo fare dilagare nella pianura padana che tanto non succede niente.
E vado avanti coi sudoku, li faccio tanto difficili che non li finisco nemmeno. Mi addormento prima.
Ma questa tempesta passerà, come passano tutte, Paraná me l’ha insegnato: il cielo bello diventa piano piano nero, il vento si alza, tutto si copre, piove come fosse l’ultima volta, viene la grandine, si sradicano alberi, si allagano le case, e poi passa. Smette di piovere, il vento porta via il nero, torna sereno e il giorno dopo viene fuori il sole. Insolente mascalzone. E illumina gli alberi sdraiati sull’asfalto, e le donne che puliscono via l’acqua delle loro case.
Qui ora piove e mi manca la luce dei libri.
Ma tutto passerà e tornerò a leggere, e mi godrò il ricordo delle strade calde di Arcadio Buendia, e sentirò che un eroe è quello che ti ammazza i ragni, che Anna Karenina, povera, non vedeva un’altra soluzione, che il dottore non si è contagiato perché aveva una insitente voglia di vivere, e che tradire sé stessi fa impazzire.