Rafsanjani, la morte dell'Andreotti iraniano
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Rafsanjani, la morte dell'Andreotti iraniano

Collaboratore storico di Khomeini, garante degli equilibri della Repubblica, conservatore ma pragmatico: il ritratto dell'ex presidente dell'Iran

È morto all'età di 82 anni a Teheran, a causa di un attacco cardiaco, l'ex presidente iraniano Akbar Hashemi Rafsanjani, stretto collaboratore dell'ayatollah Khomeini  dai tempi della Rivoluzione iraniana e storico presidente della Assemblea degli esperti, l'organo incaricato di eleggere e rimuovere la Guida suprema dell'Iran.

Conservatore ma pragmatico, uomo potentissimo considerato il garante degli equilibri istituzionali della Repubblica islamica, Rafsanjani è stato eletto presidente per due volte di seguito, dal 1989 al 1997, provando a conquistare un terzo mandato nel 2005, quando fu sconfitto alle elezioni a sorpresa da Mahmoud Ahmadinejad, fautore di una linea più spregiudicata e populista di quella contuinista e moderatamente riformista che ha impersonificato per quasi quarant'anni Rafsanjani, definito spesso in Italia come l'Andreotti della Repubblica islamica. 

Se ne va con Rafsanjani, dunque, uno degli ultimi grandi vecchi della Rivoluzione. Un uomo che è stato capace di galleggiare in un quadro politico e istituzionale dove i dissidi tra i Guardiani della rivoluzione, il Clero e gli organismi elettivi sono sempre stati potenzialmente esplosivi e dervastanti per la tenuta del Paese.

Il suo pragmatismo lo ha portato anche a essere uno dei mediatori, dietro le quinte, dell'accordo sul programma nucleare iraniano raggiunto a Vienna nel luglio del 2015 tra l'Iran e le grandi potenze mondiali. Un uomo che a suo modo è stato anche capace di guardare al futuro, contribuendo a far uscire l'Iran dall'isolamento internazionale, senza però mettere mai in discussione la Repubblica islamica né il potente Clero sciita, di cui è sempre stato un esponente di spicco.

Anti-israeliano come tutto lo stato maggiore della Repubblica, difese sempre la scelta strategica di dotarsi dell'arma atomica (come fece in un celebre discorso per la Giornata di Gerusalemme del 14 dicembre 2001) che sarebbe servita per contrastare quelle che definiva le mire imperialiste dello Stato ebraico e del Grande Satana americano. 

«Se un giorno il mondo islamico si doterà anch'esso di armamento quale quello che oggi possiede Israele, allora la strategia degli imperialisti entrerà in stallo, perché l'impiego di anche un solo ordigno nucleare su Israele distruggerà ogni cosa. Sebbene il mondo islamico non abbia alcuna intenzione di nuocere non è irrazionale prendere in considerazione ogni eventualità».

Rafsanjani fu però anche il fautore di una linea gradualista di apertura all'Occidente e all'economia di mercato, dando slancio alle politiche di privatizzazioni degli anni 2000 e favorendo poi il patto sul nucleare siglato con il Grande satana americano. Il tutto per salvare - sostengono gli analisti più accorti - il potere del Clero sciita, contrastando sia le spinte riformiste e democratiche che considerava troppo radicali impersonificate dall'ex presidente riformista Khatami sia quelle estremiste e nostalgiche rappresentate dall'ex presidente Ahmadinejad.



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