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ABDULLAH DOMA/AFP/Getty Images
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Perché una spedizione italiana in Libia sarebbe un errore

Senza una richiesta di un vero governo di unità nazionale saremmo solo degli invasori. Con tutte le conseguenze, anche di pericolo terroristico

L’Italia, per ragioni storiche e geografiche, conosce la Libia meglio di qualsiasi altro paese occidentale e questo spiega perché siamo così restii a intervenire militarmente.

Primo: la Libia è qualcosa di molto diverso dal “bel suol d’amore” dell’era coloniale. 
È una terra complessa, frastagliata, oggi precipitata in un disordine che ha risparmiato per puro opportunismo solo la Compagnia nazionale del petrolio (Noc) e la Banca centrale, cioè i due organismi che continuano a garantire la distribuzione dei proventi del petrolio a tutte le fazioni in lotta.

Dietro i Parlamenti di Tobruk e Tripoli e nel mosaico di tribù e milizie che si sono spartite città e deserto, non c’è un leader o un’entità che riescano (come Gheddafi fino al 2011) a primeggiare su tutti imponendo la loro legge. 

L’unico elemento che sembra unire tutti gli attori della scena libica è il fastidio per le ingerenze straniere. 

In realtà, gli unici “stranieri” che siano riusciti a attecchire in alcune limitate aree del paese sono i manipoli di miliziani dell’Isis arrivati dal resto dell’Africa e dalla Siria. 

In questa confusa miscellanea di interessi contrapposti e di sponsor esterni (vedi l’Egitto per Tobruk o la Turchia per Tripoli), l’Italia deve destreggiarsi al fine di proteggere le proprie infrastrutture. Per esempio quelle del gas a Mellita lambita dai raid americani (Sabratha dista venti chilometri) e dagli scontri per la liberazione dei 4 ostaggi italiani (due uccisi, due “fuggiti”).

In questo quadro incerto, e in assenza di un governo autorevole di unità nazionale libico, gli Stati Uniti di Obama (che rifiuta di inviare i propri uomini sul terreno) vorrebbero che fosse l’Italia a assumere la guida di una coalizione internazionale occidentale e araba denominata LIAM (“Libyan International Assistance Mission”) destinando 5mila uomini oltre a basi, navi, aerei.

Luccisione dei due operai italiani della Bonatti è stata solo un assaggio di quello che potrebbe accadere. Con 5mila uomini contro l’Isis in Libia, le ritorsioni terroristiche direttamente in Italia sarebbero inevitabili. 
Senza una richiesta libica, saremmo percepiti come invasori anche dai nostri potenziali amici.

Perciò la prudenza è d’obbligo, e le fughe in avanti dei nostri “alleati” non fanno che minare le pur minime chance di soluzione diplomatica.

Nel 2011, soprattutto su spinta dell’allora presidente francese Sarkozy e palesemente contro gli interessi dell’Italia che aveva firmato un Trattato di Amicizia con la Libia e archiviato il contenzioso coloniale, fu fatta una guerra alla quale ci accodammo pensando di non avere alternative.

Una guerra sostenuta con vigore, anche se meno ostentatamente, anche dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti (per l’insistenza della Clinton su uno scettico Obama). 

Quella guerra non ha portato nulla di buono. Gheddafi cadde e fu barbaramente ucciso. Ma al suo posto non è nata una nuova Libia primaverile. E oggi ci troviamo di fronte a grandi pericoli invece che a grandi opportunità.
L’Occidente di oggi non è fatto per la guerra, anche se forse proprio per questo la guerra che non vogliamo fare (ma soprattutto che non vogliamo ammettere) l’abbiamo già subìta. E persa.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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