Ecco quanto è costato allo Stato spiare Panorama
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Ecco quanto è costato allo Stato spiare Panorama

Per i controlli telefonici spesi oltre 50 mila euro. Ma non si sa che fine hanno fatto le intercettazioni autorizzate nel 2012  - Lettera: io, spiata -

Magistrati e investigatori: a Napoli, da due anni, un imponente schieramento sta indagando sotto traccia. Uomini e mezzi degni di un’inchiesta antimafia stanno scandagliando la vita di numerosi giornalisti di Panorama, colpevoli di aver pubblicato uno scoop o, più semplicemente, di lavorare per il settimanale mondadoriano. In 24 mesi, quasi per osmosi, l’inchiesta è transitata attraverso tre diversi fascicoli e ha raggiunto un obiettivo: insinuarsi nella redazione del primo settimanale d’Italia alla ricerca di reati e di chissà quali segreti. È una storia che non ha ancora una conclusione, ma che possiamo delineare grazie ai pochi atti depositati lo scorso luglio dai pm con l’avviso di chiusura delle indagini per i reati di accesso abusivo e di rivelazione di segreti d’ufficio, contestati a un cronista e alle sue presunte fonti.

Tutto inizia mercoledì 24 agosto 2011, quando Panorama anticipa alle agenzie di stampa uno scoop: la Procura di Napoli, con il solito vagone di intercettazioni telefoniche, ritiene che l’allora premier Silvio Berlusconi sia la vittima di un’estorsione architettata, tra gli altri, dagli imprenditori Gianpaolo Tarantini e Valter Lavitola; l’indagine è alle battute finali. Il cronista Giacomo Amadori viene casualmente a conoscenza della vicenda pochi giorni prima del lancio e il direttore Giorgio Mulè decide che la storia («Notizie scottanti e comunque compromettenti per chi era l’editore di riferimento e la vittima del reato, ovvero Berlusconi» scriveranno i pm) non può essere tenuta nel cassetto.

Non immaginando le conseguenze.

Il 26 agosto (48 ore dopo lo scoop) il dirigente della Digos di Napoli, Filippo Bonfiglio, scrive al procuratore aggiunto Francesco Greco (coadiuvato nell’indagine da Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli e Henry John Woodcock). Il poliziotto informa il magistrato che «dal monitoraggio del web si ricava che il giornalista (cioè Amadori, ndr) è già stato indagato per avere indotto un militare della Guardia di finanza a effettuare ripetuti accessi al sistema informatico dell’anagrafe tributaria al fine di trarre notizie riservate sulla posizione economico-contributiva di personaggi politici e operanti nel mondo dell’informazione, notoriamente contrapposti al presidente del Consiglio, informazioni poi utilizzate per la stesura di specifici ampi articoli pubblicati da Panorama».

Il cronista viene dipinto come un mezzo criminale. E la caricatura è il frutto forse di una ricerca un po’ frettolosa che ha completamente «bucato» altri passaggi salienti nel curriculum dell’inviato di Panorama: nel 2004 ha ricevuto dalle mani del presidente Carlo Azeglio Ciampiil premio Saint Vincent, una sorta di Oscar del giornalismo; nel 2001 ha vinto il premio Città di Milano per i giornalisti emergenti consegnato dall’allora sindaco Gabriele Albertini; nel 2008 ha conquistato il premio Guido Vergani «cronista dell’anno » attribuito da una giuria presieduta dal direttore del Corriere della sera Ferruccio de Bortoli e nel 2010 un riconoscimento intitolato al giudice antimafia Rosario Livatino.

L’investigatore non ha inviato a Greco anche un’altra notizia facilmente reperibile su internet. Laddove il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati in una conferenza stampa del 2010, proprio in relazione all’inchiesta sugli accessi al computer dell’appuntato della finanza, spiegava: «Non abbiamo perquisito la sede di Panorama per rispetto della libertà di stampa e, per lo stesso motivo, non abbiamo acquisito agli atti dell’indagine i tabulati del giornalista». Uno stile ben diverso, come vedremo, da quello messo in mostra dalla Procura di Napoli. Che il 27 agosto 2011, con la velocità di Speedy Gonzales, autorizza l’acquisizione dei tabulati di Amadori. Dopo questo inizio col botto, per alcuni mesi sembra che i magistrati di Napoli vogliano condurre un’indagine vecchio stile, in cui il principale strumento investigativo sono gli interrogatori. Il direttore di Panorama viene invitato a Napoli il 20 ottobre 2011. È sentito come testimone dai pubblici ministeri Curcio e Piscitelli; sono presenti anche due ispettori della Digos e un maresciallo della polizia giudiziaria. Una nutrita squadretta per una semplice testimonianza in un procedimento ancora contro ignoti. L’audizione procede senza scossoni sino a quando Mulè chiede telefonicamente alla sua segreteria di inviargli un articolo, utile alla ricostruzione dei fatti. I pm annotano a verbale il numero contattato dal direttore, un particolare che, come vedremo, si rivelerà centrale.

Prima della fine del 2011 il fascicolo cambia numero di registro (diventa il 51358/11) e si trasforma in un procedimento contro tre indagati: Amadori, l’avvocato Alessandro Maresca, vecchia fonte del giornalista, e Marco Reale, cancelliere presso il tribunale e «amico intimo» di Maresca. Sono tutti accusati di rivelazione di segreto e corruzione. In sostanza il cronista avrebbe promesso al legale e al cancelliere «utilità in corso di accertamento» in cambio della notizia. Ma in questa indagine c’è anche un testimone molto particolare: il giudice Amelia Primavera, il magistrato dal cui computer è materialmente fuoriuscito il file con la notizia. Per mesi i pm passano ai raggi x la sua vita: verificano i suoi spostamenti attraverso le celle telefoniche, la interrogano tre volte, le chiedono conto di una conversazione con il cancelliere (intercettata un anno prima), fanno esaminare da un consulente il suo computer d’ufficio e le chiedono di consegnare anche quello personale. Tutto serve per verificare l’attendibilità delle sue dichiarazioni. In particolare quelle relative al 4 agosto 2011, giorno in cui Primavera era passata in ufficio per scaricare su una chiavetta la richiesta di arresto per Lavitola e Tarantini inviata via email dal pm Piscitelli.

Il giudice è macchiato dal sospetto, pur restando «persona informata dei fatti».
Forse perché se fosse iscritta sul registro degli indagati gli inquirenti dovrebbero spogliarsi dell’inchiesta, come prevede il codice di procedura penale quando si indaga su un magistrato dello stesso tribunale. Nell’aprile 2013 i consulenti dell’accusa informano gli inquirenti che il 5 agosto 2011 la richiesta di arresto era stata trasferita anche su un’altra chiavetta e che quel giorno Primavera non era in tribunale e vi si trovavano, invece, Reale e Maresca. Ovviamente parte la contestazione a questi ultimi del reato di accesso abusivo al computer del gip e Primavera diventa automaticamente la vittima del furto.

Ecco un altro caso in cui il codice prescriverebbe il trasferimento dell’indagine a Roma.

Per togliersi definitivamente i segugi di dosso Primavera è costretta, l’11 giugno 2013, a consegnare la pen drive sulla quale scaricò il file incriminato. Una piccola memoria con foto di eventi privati, tra cui quelle di una comunione. In ogni caso a interessare i pm partenopei non è tanto la vita dei colleghi quanto quella dei giornalisti. In particolare quella dei giornalisti di Panorama. Per esempio la casa romana di Amadori viene perquisita (e non la redazione), durante un trasloco, l’1 giugno 2012, dieci mesi dopo lo scoop. Alla porta si presentano quattro agenti della Digos con pistole in vista nelle fondine per sequestrare due computer, un iPad e numerose chiavette.
Non controllano fisicamente il cronista solo perché, annotano nel verbale, «si presentava in pantaloncini pigiama».
Probabilmente il motivo di tanta pervicacia lo spiegano bene i pm nella richiesta di perquisizioni e intercettazioni del 18 maggio 2012: «È chiaro che non fu casuale l’acquisizione di una notizia che era di grandissimo interesse per Panorama (controllato dalla famiglia Berlusconi) e che se “trattata” con il taglio giusto poteva risultare sotto un profilo mediatico di grande utilità (quanto meno sotto il profilo della diminuzione del danno)».

I pm non hanno nessuna prova che lo scoop sia stato pilotato, ma vanno a caccia di presunti e oscuri retroscena. E così, nel maggio 2012, chiedono di intercettare i cellulari di Mulè (all’epoca non ancora indagato) e il telefono fisso della sua segreteria di Milano, quel numero che il direttore ha riferito durante il suo interrogatorio e che i pm hanno trascritto a verbale. Con questo artificio i magistrati cercano di penetrare, non invitati, nella redazione di Panorama. Incollano i loro timpani alla linea della direzione, crocevia dei contatti con il vertice del settimanale: fonti, collaboratori, politici usano quel numero per parlare con il responsabile del giornale. E non solo. La linea viene utilizzata per smistare le chiamate dirette a molti altri giornalisti di Panorama.
In poche parole, la Procura di Napoli in quel modo entra nella scatola nera del più importante settimanale italiano.

Non è chiaro che fine abbiano fatto le intercettazioni «autorizzate» il 24 maggio 2012. Si sa solo che si sono protratte certamente per almeno 15 giorni, sino all’8 giugno. L’unica conversazione depositata di quel periodo è l’intenso dialogo tra Reale e il gip Primavera risalente all’1 giugno del 2012, giorno dell’interrogatorio in procura del cancelliere. Delle altre telefonate al momento nessuna notizia. Forse i magistrati le tengono nella manica visto che nel frattempo hanno aperto un nuovo fascicolo (il 14887 del 2013) per corruzione contro Mulè, il quale sarebbe «incastrato» da una email di Amadori in cui si legge «le richieste della fonte le conosci». Un teorema smontato nel giugno scorso dal gip Raffaele Piccirillo, secondo il quale la fonte di cui si parla è Maresca e non Reale, l’unico giuridicamente «corruttibile», essendo un pubblico ufficiale.

Un mese dopo, i pm hanno dovuto incassare un’altra bocciatura, questa volta da parte del giudice Anita Polito che ha rigettato una richiesta di proroga delle indagini per Amadori, Maresca e Reale per corruzione e favoreggiamento. Nonostante questo uno-due gli inquirenti non si saranno scoraggiati visto che potranno proseguire le loro investigazioni utilizzando i nuovi termini calcolati dal momento dell’iscrizione di Mulè, a cui l’avviso di garanzia è stato recapitato solo il 2 luglio scorso e che quindi potrà essere tenuto sotto controllo per molto tempo ancora. E non solo lui. Come lascia prevedere il decreto di intercettazione urgente firmato lo scorso 20 giugno dal pm Piscitelli, in cui la fretta è «determinata dalle disposte perquisizioni già in via di esecuzione». I poliziotti devono cercare nello studio e nella casa dell’avvocato Maresca la chiavetta inserita
nel computer del gip Primavera il 5 agosto. I magistrati, però, non chiedono di ascoltare solo i quattro indagati, ma anche un funzionario di banca e altri tre giornalisti, compresi il vicedirettore esecutivo Raffaele Leone e il capo della redazione romana Emanuela Fiorentino (vedi articolo a pag. 67). Gli ultimi due vengono «spiati » prima e dopo le loro audizioni in tribunale.

In questo modo le loro convocazioni e l’invio dell’avviso di garanzia a Mulè diventano esche lanciate dentro una redazione giornalistica. Nelle intercettazioni avviate il 20 giugno c’è un’altra anomalia: Piscitelli le invoca esclusivamente per il reato di corruzione; il gip Piccirillo, come anticipato, risponde che «non ricorrono allo stato seri elementi indiziari in ordine all’ipotesi di corruzione» e le concede per la rivelazione del segreto, un delitto per il quale le intercettazioni erano state chieste nel 2012 e non adesso: infatti il fascicolo 14887, specificano gli inquirenti, ha come «oggetto il solo reato di corruzione, per il quale solo viene predisposto il presente provvedimento».

Con questa stravaganza procedurale finiscono nella rete 24 utenze, molte delle quali riferibili a persone non indagate. Le loro conversazioni, a ben leggere le note allegate alle uniche tre telefonate trascritte e depositate, vengono ascoltate dal 20 giugno al 20 luglio. Un fiume di parole che è certamente costato all’erario una montagna di euro. Come spiega a Panorama un navigato investigatore, grande esperto di intercettazioni: «Su 24 linee vanno impiegati almeno 14 uomini di media al giorno, per un totale di 42 mila euro di costo del personale esclusi gli ufficiali dirigenti delle indagini. In più bisogna calcolare i costi giornalieri delle apparecchiature: a Milano fanno 8 euro a linea più 8 euro da pagare alle compagnie telefoniche per la gestione del traffico dati. Alla fine monitorare per un mese la vita redazionale e privata dei giornalisti di Panorama non è costato meno di 50 mila euro». Soldi spesi per tenere sotto controllo non mafiosi o trafficanti di droga, ma un giornale accusato di aver rivelato una notizia coperta da segreto. Ovvero di avere solamente fatto il proprio mestiere.

Post scriptum. Tra le carte depositate dai pm nel procedimento 51358 del 2011 contro il cronista di Panorama c’è anche l’estratto conto bancario in lingua portoghese di una misteriosa brasiliana, Danielle Aline Louzada. Un documento apparentemente scollegato da questa vicenda. Sette pagine infilate nel fascicolo in modo incomprensibile e senza note d’accompagnamento. Navigando su internet si scopre che nel maggio scorso il Tribunale superiore di giustizia brasiliano ha esaminato la richiesta di rogatoria presentata dalla Procura di Napoli per Louzada e altre due persone.

Ma Panorama che cosa c’entra? Forse per capirlo occorre rileggere un articolo del Fatto quotidiano dell’ottobre 2011 che dà notizia di un presunto incontro di affari tra Berlusconi, Lavitola e il presidente panamense Ricardo Martinelli in Sardegna alla vigilia dell’esclusiva di Panorama, collegando capziosamente quell’abboccamento allo scoop. Nello stesso servizio il giornale cita diverse volte proprio Louzada, associandola ai business di Lavitola.
Da allora di lei non si è più sentito parlare. Sino al ritrovamento dei suoi dati bancari nelle carte dell’inchiesta su Panorama. Un piccolo colpo di scena che rende inevitabili alcune semplici domande: l’articolo del Fatto era tecnicamente una rivelazione di segreto? Se lo era, la procura napoletana ha aperto un fascicolo sulla questione e con quali esiti?

Oppure i pm hanno deciso di indagare contemporaneamente su Louzada e Panorama in seguito all’imbeccata del Fatto quotidiano? In ogni caso è una storia anomala. Come tutta questa inchiesta.

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