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Nikolaevka, la ritirata combattuta da eroi

Il ricordo dell'epilogo della spedizione in Russia dei nostri soldati tra mille difficoltà ma tenendo alto l'onore

Per non dimenticare la battaglia di Nikolaevka (26 gennaio 1943), i soldati veterani s’incontrano, a Roma, in via Cassia, per una cerimonia di commemorazione al Giardino dei caduti sul fronte russo. Per ironia della storia, Nikolaevka è scomparsa dalla carta geografica, assorbita dalla città di Livenka ma, in Italia, le sono intitolati monumenti a Brescia, a Sirmione (nella piazza della frazione Rovizza) e a Soave, nel Veronese. Bepi De Marzi, Massimo Priviero e il cantautore comasco Davide van de Sfroos hanno composto dei brani musicali per dare voce ai caduti in quella battaglia. Dove i reparti italiani si coprirono di gloria anche se il successo militare si rivelò inutile.

Il destino del contingente tricolore, mandato a combattere a oriente, era segnato fin dall’inizio. Quanto a efficienza e dotazioni, l’esercito italiano era messo persino peggio di quello che affrontò gli austro-ungarici nella Prima guerra mondiale. La preparazione dei reparti approssimativa. Le armi antiquate e insufficienti. I comandi inadeguati.

Il 22 giugno 1941, tenendo a battesimo l’operazione Barbarossa, Hitler ordinò di invadere la Russia. La superiorità tedesca risultava allora debordante e il fascismo di Benito Mussolini intendeva rimanere aggrappato alle vittorie di Berlino per rivendicare titoli di merito, al momento di stipulare la pace.

Dell’aggressione a Mosca, l’Italia venne informata a cose fatte. La cancelleria di Berlino inviò un messaggio al ministro degli Esteri Galeazzo Ciano che, a sua volta, fece svegliare Mussolini, in vacanza a Riccione. Nel cuore della notte gli comunicarono le novità e la reazione immediata del duce fu: «Vengo anch’io!». Il Führer ne avrebbe fatto volentieri a meno. «Col cuore colmo di gratitudine» apprezzò l’offerta ma aggiunse che «l’aiuto decisivo avrebbe potuto avvenire anche in seguito dal momento che l’avanzata non potrà avvenire dappertutto contemporaneamente». Niente da fare. «Sono pronto a contribuire con forse terrestri a aeree e voi sapete quanto lo desideri». Di malavoglia Hitler fu costretto ad accettare.

L’Italia si trovò a recitare il ruolo del vaso di coccio, fra due eserciti poderosi. I tedeschi schierarono 3 milioni e mezzo di uomini; i sovietici 4 milioni e 700 mila; gli italiani parteciparono con 60 mila uomini. I reparti inviati da Mussolini erano «autotrasportabili» che, nel contorto linguaggio militare, significava che non disponevano dei mezzi necessari per muoversi autonomamente. Occorreva «una complessa navetta» di autocarri che faceva la spola avanti e indietro. Non potendo procedere con passo analogo, fra chi si muoveva sui camion e chi marciava a piedi, potevano starci anche cento chilometri. L’unità di comando si trovò sparpagliata nella pianura ghiacciata russa. Per buon peso, probabilmente a cause delle bassissime temperature, la maggior parte dei motori smise di funzionare per cui i soldati si trovarono senza anche di quel poco che era stato messo a loro disposizione.

Nell’immaginario collettivo, la campagna i Russia si associa ai reparti alpini ma solo perché i narratori di quelle vicende portavano il cappello con la piuma dell’aquila. Memorabili le Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi e Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Struggente Il diario di un alpino in Russia di Nuto Revelli. Però, dello schieramento italiano sul fronte orientale facevano parte reparti di bersaglieri, fanti, artiglieri e persino squadroni di cavalleria. Anzi, la storia miliare ricorda che, proprio in Russia, a Isbuscenskij, avvenne l’ultima carica a cavallo. Al grido di «Avanti Savoia!», i reparti tricolore costrinsero alla fuga il triplo di nemici. I quali dovettero ammettere: «Noi, queste cose, non le sappiamo più fare».

L’elogio, certamente senza volerlo, si traduceva in un significato amaro. Voleva dire che l’esercito italiano era in grado di operare in contesti che non servivano più, mentre non conosceva le dinamiche che sarebbero state utili. Insomma, vecchio di prospettive e di mentalità. All’inizio, più per la forza tedesca, la penetrazione in territorio nemico, fu irruento.

La divisione Pasubio si scontrò con le retroguardie sovietiche. Avvenne l’11 agosto (1941), a nord dell’abitato di Pokrovskoe, sulla riva destra del Bug. I suoi caduti furono i primi di un rosario interminabile di lutti e di sciagure. I tedeschi immaginarono di seguire il canovaccio delle guerre-lampo. «Pensano di risolvere la questione in otto settimane». La previsione tedesca venne registrata da Ciano, nel suo diario. «Possibile» commentò. «I calcoli militari di Berlino sono sempre stati più esatti di quelli politici. Ma se così non fosse?».

Non fu. L’inverno a cavallo fra 1941 e 1942 fermò le operazioni militari. In primavera, i tedeschi si presentarono sulla direttrice per Stalingrado. La presa della città non rappresentava un obiettivo strategico risolutivo. In verità, neanche importante. Ma lì le Panzer Divisioni rimasero bloccate e, nonostante un impiego di mezzi spropositato, non riuscirono a sfondare. I contingenti italiani furono rafforzati con altri 200 mila uomini che andarono ad accrescere il numero dei disperati male armati e con scarponi di cartone.

I comandanti dei Corpi d’Armata dell’Asse furono costretti a prendere atto che la spinta in avanti era da considerarsi esaurita e, non potendo continuare a procedere, ripiegarono. Dapprima in ordine, poi affrettatamente e, infine, con quella furia che sembrò una fuga, senza regole né disciplina. Compagnie senza comandanti e ufficiali senza soldati. Ognuno con l’obiettivo (e la speranza) di tornare a casa, passo a passo su una lastra sterminata di ghiaccio. Nessuna disposizione da impartire e, dunque, niente cui ubbidire.

I sovietici, presi alla sprovvista dall’invasione tedesca, utilizzarono il «generale spazio» confidando nelle enormi distanze che dovevano essere coperte. Poi, superato il momento di stordimento e ordinati puntualmente i reparti, Stalin ordinò che si contendesse, palmo a palmo, l’avanzata dei nemici. Le operazioni Saturno e piccolo Saturno (dicembre 1942) indicarono che il registro della contesa si era ribaltato. Gli inseguitori si trovarono a essere inseguiti. E scappare nella steppa a 40 sotto zero, senza sostegni, con i nemici alle calcagna fu un tormento che riguardò per intero le armate dell’Asse: tedeschi, romeni, ungheresi, italiani.

Braccati dai nemici, i reparti s’incamminarono verso occidente, disegnando una processione lunga anche 40 chilometri. La colonna rallentava e s’ingrossava se, davanti, un ostacolo o i nemici rallentavano la marcia. A Nikolaevka, si trovarono imbottigliati. Russi davanti e alle spalle. Per forzare lo sbarramento fu necessario il sacrificio della Tridentina l’unica divisione in grado di dimostrare qualche vitalità. Il generale Luigi Reverberi guidò i suoi alpini all’assalto di un nemico «notevolmente superiore in uomini e mezzi, fortemente sistemato su posizione vantaggiosa, deciso a non lasciare passare». I resoconti riferirono che l’ufficiale, si espose in prima persona «balzando su un carro armato e lanciandosi leoninamente nella furia della rabbiosa reazione nemica».

In realtà, non si trattò esattamente di un’azione da testo militare. L’assalto fu spontaneo, istintivo, persino, irrazionale. Una gigantesca carica a piedi, come sarebbe piaciuto a Giuseppe Garibaldi, senza un piano di battaglia né risparmio di energie. Rimasero sul campo almeno 6 mila uomini, quasi la metà degli effettivi ma si meritarono un’ammirata citazione nell’ordine dei giorno sovietico.Un elogio a caro prezzo perché, comunque, i più non tornarono.

di Lorenzo Del Boca

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