Quirinale e La Repubblica, due partiti in lotta
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Quirinale e La Repubblica, due partiti in lotta

I due partiti di cui si parla esercitano una straordinaria e continua azione di pressione e di condizionamento della vita pubblica

La vicenda del ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, ha confermato che l’Italia è divisa in due partiti. Se pensate al Pd e al Pdl siete fuori strada. Perché i due partiti di cui si parla esistono ma è inutile cercare il loro simbolo sulla scheda elettorale. Eppure esercitano una straordinaria e continua azione di pressione e di condizionamento della vita pubblica, determinano l’evoluzione dei fatti, influenzano il dibattito parlamentare, lo deviano abilmente. Soprattutto sono in grado di orientare le decisioni.

Ecco dunque fronteggiarsi il Partito di Repubblica (inteso come il quotidiano, d’ora in poi PdR) e il Partito del Quirinale (PdQ). Il primo ha montato il caso Cancellieri, mettendo in pratica una forma di persecuzione che altrove sarebbe stata sbrigativamente qualificata e squalificata come «metodo Boffo». Anche se qui, a dire il vero, siamo al metodo goffo, perché il PdR ha dato la plastica dimostrazione di come funzioni il corto circuito mediatico giudiziario, a cominciare dalla pubblicazione di carte segrete penalmente irrilevanti (il famoso tabulato delle chiamate tra il Guardasigilli e Antonino Ligresti) nel totale disinteresse di chi – e cioè la Procura di Torino – dovrebbe garantire la riservatezza degli atti (per i giornalisti di serie B sarebbero scattate immediatamente perquisizioni, intercettazioni telefoniche magari accompagnate da accuse ridicole tipo corruzione).

Gli atti penalmente irrilevanti sono stati utilizzati nel modo spregiudicato e spregevole che sappiamo; e con un solo obiettivo: costringere il ministro alle dimissioni sulla base di una chiaroveggenza giornalistica di tipo otelmiano, tale è infatti la capacità del PdR di dare contenuto nei suoi articoli a un’intercettazione che non c’è (!) sulla scia di poteri che pensavamo fossero propri del Divino Otelma. Il PdR conta sulla disponibilità di un vasto e variegato schieramento di uomini politici. A loro si è aggregato il giovane-vecchio Matteo Renzi, lesto a cavalcare la richiesta di dimissioni della Cancellieri e ad accomodarsi sotto il manto protettivo del PdR, unica vera autorità riconosciuta dalla sinistra perché in grado di legittimare o stroncare i leader o gli aspiranti leader che si muovono da quelle parti (citofonare Bersani per dettagli). Matteo, che è un ragazzetto sveglio e svelto, lo ha capito al volo e si è adeguato.

Al PdR si contrappone il Partito del Quirinale, si diceva. Che sul caso Cancellieri è tornato a duellare con il PdR come ai tempi delle intercettazioni illegittime della Procura di Palermo (al PdR hanno due fissazioni, che notoriamente sono peggio delle malattie: le intercettazioni e Silvio Berlusconi). Avendo appreso, a mezzo comunicato, che la Procura di Torino aveva deciso di non indagare il ministro, lassù sul Colle non hanno trattenuto l’euforia e si sono subito precipitati a esprimere pubblico apprezzamento per «la chiarezza e il rigore delle decisioni e delle precisazioni» venute dai magistrati piemontesi.

Dal che, se uno ragionasse come il PdR, sarebbe legittimo attendersi che d’ora in poi il Quirinale intervenga con uguale foga per disprezzare le quotidiane porcherie che si consumano in materia di giustizia da una parte all’altra dell’Italia. Non accadrà, ovviamente. Il PdQ è infatti concentrato in questo scontro frontale con il PdR (la posta in gioco è la tenuta del governicchio) e si avvale di un esercito alla cui testa c’è, ovviamente, il presidente del Consiglio. L’ultimo arruolato, manco a dirlo, è il vicepremier, Angelino Alfano. Che al Colle non ha trovato il «quid», ma una tana sicura dove accucciarsi in attesa di tempi migliori.

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Giorgio Mulè