La pistola di Preiti, l'orrore delle parole
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La pistola di Preiti, l'orrore delle parole

Il paese è allo sbando, lo dimostrano gli elogi per l'uomo che ha sparato ieri a Roma a due Carabinieri - le reazioni sui social network - le foto della sparatoria -

Qualche progresso è stato fatto dagli anni di piombo, ma non tanti.

Negli anni ‘70 c’erano “i compagni che sbagliano”, oggi quelli (compagni o solo disperati) che “sbagliano mira”. Per l’ex candidato e oggi capogruppo dei 5S a Torino, Vittorio Bertola, “milioni di italiani pensano ‘peccato che (Luigi Preiti) non abbia fatto secco un ministro”. Guai a definire Luigi “uno squilibrato”, scrive qualche internauta dei blog grillini. Come dire che Luigi non aveva tutti i torti, è anche lui una vittima come i carabinieri contro cui ha sparato. Secondo alcuni, addirittura un uomo “da ammirare perché ha avuto il coraggio di affrontare lo Stato, è stato capace di mettere in azione quello che molti di noi pensano dalla mattina alla sera”. Per altri è quasi un martire (“voleva morire nella sparatoria”), merita solidarietà. Purtroppo non ha centrato il bersaglio. “Ci rimettono sempre gli innocenti! Sarebbe meglio raddrizzare la mira”. L’Oscar del commento peggiore a una tal Selma: “Sbagliato l’obiettivo, se fosse stato seccato una merda del governo sarei andata a comprare champagne e avrei brindato”.

È vero, l’Italia è allo sbando. La casta ha tuttora vita facile, e comunque vive di diritti (sarebbe meglio definirli privilegi) acquisiti. Ma è falso che la casta sia solo quella dei politici. Ce ne sono altre ancora più intoccabili, subdole e resistenti. Ma non è questo che conta, ora. Conta il punto a cui siamo arrivati noi.

A chiunque pensa di giustificare il gesto di Luigi o lo attribuisce a una qualche strategia della tensione secondo il vecchio e marcio ragionamento del “cui prodest?” (a chi giova?) va detto che se l’Italia è allo sbando, se abbiamo dilapidato un patrimonio economico e morale che non potremo più consegnare ai nostri figli, se il senso di appartenenza a una comunità nazionale è sparito dai radar della convivenza civile, se il merito coltivato nel silenzio degli studi e del lavoro soggiace all’arroganza del primo che urla o prevarica, se alla fine della fiera abbiamo la classe dirigente che ci meritiamo, la responsabilità non è di qualche capro espiatorio, ma di tutti noi. L’assenza di autocritica genera mostri. E le parole possono uccidere, perché armano l’odio trasformandolo in invidia, fornendogli un bersaglio che quasi mai corrisponde a quello reale.

Impariamo anche noi a fare “la prova del luminol” a quello che leggiamo sul web o che dicono certi politici (anche Grillo lo è). Applichiamo alle parole dei tribuni e dei blogger le tecniche della polizia scientifica per rilevare le tracce di sangue nascoste sulle scene del delitto, perché da certe frasi stilla sangue che non si smacchia più, nonostante la sua “innocenza”. Si può (si deve) inorridire per i morti, come per le parole che li generano o possono generarli.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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