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Ludopatia, quando è malattia e quando una scusa

Ludopatia, quando è malattia e quando una scusa

La recente ondata di calcio scommesse ha riacceso i riflettori su un problema sempre più presente nella nostra società che non può (e deve) essere più ignorato

Dietro lo scandalo delle scommesse illegali che ha travolto alcuni calciatori italiani come Fagioli, Tonali e Zaniolo e che rischia anche di allargarsi coinvolgendo altri big del calcio, potrebbe esserci una vera e propria dipendenza dal gioco d’azzardo che le società avrebbero fatto finta di non vedere.

Ma fino a che punto la ludopatia sia causa o alibi non è facile stabilirlo. Il sospetto è infatti che questa dipendenza possa essere usata per nascondere la responsabilità personale di un professionista lautamente remunerato che decide consapevolmente di infrangere le regole.

«Il problema della ludopatia è serio ed usarlo come espediente sarebbe un ulteriore aspetto inquietante della vicenda» commenta a riguardo lo psichiatra Santo Rullo, fondatore della nazionale di calcio a cinque per persone con disturbi mentali “Crazy for Football”.

Esclude quindi che i giocatori possano usare questo espediente per farla franca?

«No, ma significherebbe nascondere un eventuale dolo o sottovalutare un segno di disagio dei giocatori implicati. La ludopatia è una dipendenza comportamentale, che da un punto di vista psicologico non si differenzia molto dalle altre dipendenze comprese quelle da sostanze stupefacenti. La scommessa agisce sulle emozioni della persona in una sorta di sfida alla morte. Lo spezzettamento degli eventi singoli su cui scommettere (calci d’angolo, cartellini gialli, etc…) determina uno stimolo emotivo continuo che mette a maggior rischio di comportamento da cui dipendere».

Come si manifestano questi comportamenti nel ludopatico?

« I comportamenti di gioco compulsivo spesso si manifestano associati ad altre condotte di disagio. La pressione psicologica cui questi ragazzi, poco più che adolescenti, sono sottoposti nella loro attività agonistica certamente procura sintomi ansiosi nei soggetti maggiormente vulnerabili. Anche le loro abilità sociali sono meno efficienti per una eccessiva esposizione sui social».

Nel mondo del calcio era prevedibile che accadesse?

«Da tifoso sono amareggiato per quanto sta accadendo nel mondo del calcio, da medico penso che fosse prevedibile ma molti, evidentemente anche all’interno dei club, hanno voluto chiudere gli occhi. Il calcio scommesse non può e non deve tradursi semplicisticamente in un gruppo di sportivi milionari che scommettono enormi quantità di denaro, mettendo a rischio la propria carriera, nel tentativo di arricchirsi ulteriormente. No, è molto di più e molto peggio: è un disturbo patologico da gioco d’azzardo in cui a farla da padrone non è il tentativo di vincere ma tutto il contrario, ossia quello di perdere per poter continuare a scommettere».

Secondo lei le società hanno ignorato il problema?

«Sono sconcertato dal fatto che nessuno nelle squadre si sia mai reso conto di questa dipendenza che oltretutto si manifesta con chiari sintomi e segnali. Lo dico da tempo e quanto sta avvenendo conferma la correttezza della mia posizione: i professionisti dello sport devono essere supportati costantemente da psicologi e psichiatri, per migliorare le prestazioni in campo ma soprattutto per dotarli degli strumenti per far fronte a tutte quelle difficoltà che le pressioni e le aspettative producono nelle menti di questi giovani come la depressione o appunto, la ludopatia. La salute mentale è oggi una vera e propria emergenza nel mondo dello sport professionistico, per questo mi auguro che un evento così dannoso per il sistema calcio smuova le Federazioni affinché si impegnino attivamente per proporre a tutti i club e società sportive un piano per contrastare fenomeni di questo tipo nell’interesse dell’attività agonistica ma soprattutto degli sportivi. Se nulla cambierà, se non si correrà immediatamente ai ripari ci troveremo presto a commentare altri eventi magari più drammatici in cui saranno coinvolti sportivi professionisti».

Da una ricerca della Luiss è emerso che il 60% dei calciatori cinque anni dopo il ritiro dall’attività agonistica, vive in uno stato di indigenza, per molteplici fattori tra cui la ludopatia. Cosa ne pensa?

«Lo studio della LUISS conferma ciò che vediamo noi clinici. L’interruzione dell’attività agonistica rappresenta una sorta di pensionamento Baby di persone abituate ad un certo grado di notorietà (anche i giocatori di serie minori in piccoli centri sono dei relativi idoli). Questo comporta una ferita narcisistica che può indurre disagio e conseguentemente anche maggiore vulnerabilità per le dipendenze, inclusa quella da gioco. E il gioco per i pensionati… è sempre una pessima via d’uscita dalle difficoltà psicologiche ed economiche. Collaboro con un’associazione del terzo settore fondata da ex-calciatori come Beppe Dossena ed altri, che si fanno carico del disagio dei loro colleghi meno fortunati, portando vecchie glorie del calcio a testimoniare i valori dello sport nelle scuole e nei diversi ambiti sociali».

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