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ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
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L'incredibile storia del senatore che non riesce a dimettersi

Si chiama Giuseppe Vacciano. Da tre anni vuole dimettersi ma il Senato respinge le sue dimissioni: "Liberatemi e fatemi tornare a casa"

Restituitelo alla moglie e proteggetelo dal vitalizio. «Lasciatemi tornare a casa e liberatemi dai privilegi». Insomma, salvatelo e intervenite! Da tre anni, Giuseppe Vacciano vuole dimettersi da senatore ma non ci riesce. Da tre anni tenta di evadere dal Senato ma i senatori ne impediscono la fuga.

«Credetemi, non è uno scherzo. Io presento le dimissioni ma loro le bocciano. Io ripeto che voglio tornare dalla mia famiglia e loro mi trattengono come un ostaggio». È proprio vero che vuole scappare dal Senato? «A Latina. È li che voglio fare ritorno».

In contrasto con il M5S, Vacciano è uscito dal gruppo, ma, per rispettare il mandato elettorale, continua a votare secondo le decisioni del gruppo. «Non condivido più il loro percorso ma sono stato eletto con il loro programma». Il 22 dicembre 2014 ha così presentato le “prime” dimissioni e il M5S lo ha espulso. Vacciano si è dovuto iscrivere al gruppo Misto che è la tenda dei parlamentari senza residenza, la macedonia di tutti gli spiriti in movimento. «Ma, in realtà, volevo rimanere nel M5S, almeno fino alle dimissioni». Perché? «Per non fare perdere la quota che il Senato assegna ai gruppi. Ogni parlamentare ‘vale’ circa 60 mila euro ed è giusto che quel denaro vada a loro».

Al Senato hanno cominciato a pensare che Vacciano sia troppo fesso o troppo furbo, che sia Socrate o un diavolaccio. Non è che ci sta prendendo in giro? «Ho presentato cinque volte le mie dimissioni. Non basta questo per dimostrare la mia buona fede?». Dice di non riconoscersi nel M5S ma continua a sposarne la linea. Perché si ostina? «Non consideratemi un marziano. La coscienza mi impone di lasciare il M5S, ma la coerenza mi obbliga a rispettarne le loro norme».

Come si vede, non è solo un rompicapo parlamentare ma è finito per diventare un episodio di psicanalisi. Vacciano è prigioniero del Senato ma anche di se stesso. Per seguire le sue convinzioni è uscito dal movimento di Beppe Grillo, ma per non venire meno ai suoi doveri rispetta tutte le norme stabilite da Grillo. «Ed è proprio per questa ragione che chiedo di abbandonare il palazzo. Per sciogliere la contraddizione».

Esiliato nel gruppo Misto, Vacciano continua pure a rendicontare le spese e a restituire il denaro «al fondo di garanzia per il microcredito, così come prevede il Movimento». Non percepisce neppure l’indennità. «Ma non per eroismo. Sono in aspettativa retribuita. Ho preferito tenermi il mio vecchio stipendio che alla fine era lo stesso di quello da senatore». Quanto? «2800 euro al mese».

Vacciano ha 45 anni e ha studiato ragioneria. «Nel 2004 ho vinto il concorso come impiegato. Faccio il cassiere alla Banca d’Italia. Ho iniziato a lavorare a Ravenna ma sono di Latina». Esperto di materie economiche, è stato assegnato alla Commissione Finanza dove ha presentato oltre 200 emendamenti e 5 disegni di legge. Per il sito OpenPolis, che è il registro di classe dei parlamentari, Vacciano ha l’86,57% di presenze in aula. «Parto da Latina con il treno delle 8 e torno alle 22».

Da dimissionario continua dunque a lavorare. Da senatore desidera tornare a fare l’impiegato. Per quale ragione i senatori l’hanno “sequestrata”? «Per dispetto, per consuetudine. Per rappresaglia. I numeri non cambierebbero, dato che io non sono passato alla maggioranza». I senatori si oppongono, secondo Vacciano, per tutelare il principio sancito dall’articolo 67 della Costituzione che recita cosi: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

«Ma io mi chiedo cosa ci sia di più alto della dimissioni». Il Senato è come l’isola di Alcatraz? «Non scherziamo, ma i bizantinismi per dimettersi, quelli sì, sono delle gabbie». Il meccanismo che disciplina le dimissioni parlamentari è infatti l’ultimo esempio di barocco italiano, è pensato per favorirne la permanenza anziché accelerarne l’uscita. Pochissimi sono i deputati nella storia della nostra Repubblica che si sono dimessi. Tra questi: Enrico Letta e la scienziata Ilaria Capua. Per quale ragione Letta ci è riuscito? «Perché sedeva alla Camera. Molti senatori mi hanno rivelato che se Letta si fosse trovato al Senato non le avrebbero mai accettate».

Il regolamento prevede che le dimissioni non vengano solo maturate, ma firmate, inviate al presidente del Senato e infine calendarizzate. «E qui c’è un altro ingorgo. Le dimissioni devono essere dibattute in aula. Ma tra la presentazione e il dibattito possono passare molti mesi». In media? «Anche nove. È il presidente che decide quando discuterle in aula».

Vuole raccontare la sua “agonia”? «Iniziamo. Le “prime” dimissioni sono state votate il 14 febbraio 2015». Favorevoli? «Solo 57. La prima volta è cortesia istituzionale respingerle anche per valutare meglio la volontà del parlamentare». E la seconda? «Le ho riconsegnate a febbraio del 2015, ma sono state discusse il 16 settembre 2015. Nove mesi dopo». I senatori si sono convinti? «Macché. I favorevoli alle dimissioni sono pure scesi. Solo 48». Il 16 settembre 2015, Vacciano le ha cosi riproposte per la terza volta. «E sono state rivotate il 13 luglio del 2016. In quell’occasione sono aumentati pure i contrari. 196». Non si è stancato? «No, ho ritentato». La quarta votazione si è svolta lo scorso 25 gennaio 2017. Le dimissioni sono state nuovamente rifiutate. Infine la quinta, proprio la scorsa settimana, il 20 aprile. Respinte.

Non è che s’impegna poco? «Da quando ho scelto di lasciare Palazzo Madama ho scritto 1000 lettere, inoltrato 20 solleciti per affrettare la calendarizzazione dei dibattiti». I senatori della Lega Nord hanno cominciato pure a burlarsi di lui («”Ma sei ancora qui?”» mi dicono). Il senatore socialista Enrico Buemi ha invece scomodato la ragion di Stato per spiegarne la bocciatura: «Quella di Vacciano non è una vicenda personale, ma si tratta di un problema politico. Perché le dimissioni sono un atto politico».

Nel caso di Augusto Minzolini - il senatore decaduto ma in un primo momento salvato dal Senato - sicuramente si è trattato di politica. «E quel caso lo comprendo. Forse davvero nei confronti di Minzolini c’è stato il fumus persecutionis da parte del giudice. Ma per Minzolini si parlava di decadenza, mentre nel mio caso basta prendere atto della volontà personale». E di quella della moglie. «Prima si è stranita poi si è spazientita, ma adesso si è rassegnata». E poi ci sarebbe anche il destino del portaborse.

«Certo, insieme a me lavora una collaboratrice. È di Latina. È stata la prima persona a cui ho comunicato la decisione di lasciare il Senato». Da quattro anni vive sul filo. Dica la verità: fa il tifo perché rimanga? «No, ha accettato la mia scelta e si è dichiarata disposta a lavorare fino a quando rimarrò al Senato». In realtà, sullo sfondo, ci sarebbe anche la donna che dovrebbe prendere il posto di Vacciano qualora passassero le dimissioni. «Da quel che so, non ha nessuna intenzione di subentrare».

Ma insomma, perché ha lasciato il Movimento? «Ma è chiaro. Perché la rete ha smesso di contare. Perché non si chiedeva la fiducia in un programma ma la fede nei confronti di Grillo». Proviamo a tentarla. Perché non prova a iscriversi a qualche circolo per senatori? «Per carità. Non mi interessa». Le notti romane? «Preferisco rimboccare le coperte ai miei figli. Ne ho due». Bastano 4 anni e 6 mesi per ottenere il vitalizio. Manca pochissimo e può farcela. Suvvia, un altro piccolo sforzo. «Non lo voglio. Troverò il modo per restituirlo». Ma che educazione le ha dato suo padre! «La migliore. Ho praticato scherma medievale. Mi piacciono le regole e i codici».

E però è colpa dei regolamenti se non riesce a lasciare le istituzioni. «Vanno cambiati ma non posso sabotarli». Potrebbe passare alla storia per il suo rifiuto. «Pensavo che non fosse facile dimettersi ma non immaginavo fosse così difficile. Mi pento. Se avessi saputo non avrei mai accettato la candidatura». Rimanga, resista. Il Senato ha bisogno di lei. «Né senatore né consigliere di quartiere e neppure di condominio. Vi supplico. Non parlatemi mai più di politica».

 

 

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Carmelo Caruso