Brexit: Londra fa marcia indietro. Basta liste pubbliche dei lavoratori stranieri
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Brexit: Londra fa marcia indietro. Basta liste pubbliche dei lavoratori stranieri

Dopo le critiche dei premier europei e delle imprese alla proposta del governo May, questo annuncia che non saranno resi pubblici i dati sui non britannici

E così il governo britannico fece marcia indietro. Di sicuro questo verrà ricordato più della proposta "scandalosa" da parte inglese di obbligare tutte le aziende nazionali a pubblicare liste di proscrizione per lavoratori stranieri al fine di proteggere i propri cittadini. Motivo dell'inversione ad U da parte del governo May, il corposo coro di critiche da parte della politica e delle imprese.

Anche se il giorno dopo l'ideatrice della polemica, la ministra degli Interni Amber Rudd (non smentita dalla leader di partito Theresa May), aveva parzialmente corretto il tiro giustificando l'uscita infelice come un'idea al vaglio non ancora approvata, la bufera in Europa era infuriata lo stesso scatendando una dura opposizione a una Brexit solo pro Gran Bretagna.

Solo un paio di giorni e, a rassicurare gli animi, è dovuta scendere in campo la ministra dell'Istruzione Justine Greening annunciando domenica 9 ottobre (in un'intervista televisiva) che il Parlamento non ha intenzione di consentire che vengano resi pubblici i dati sul numero dei lavoratori stranieri poiché resteranno confidenziali al governo che li userà per rafforzare i programmi di formazione nei settori dell'economia. Come dire, "ritirata tattica", come l'ha definita Craig Oliver, ex-portavoce di Cameron.

Una ritirata che è stata preceduta da giorni di seria preoccupazione da parte degli stranieri che vivono in Gran Bretagna e da quelli che stavano per partire. Italiani compresi, che in Inghilterra sono 151.790 su circa 3 milioni di cittadini europei. Dure infatti erano state le risposte a partire dagli ultimi giorni della settimana scorsa. Sia da parte del premier francese Hollande fino alla piccata reazione della cancelliera Angela Merkel, passando per la forte reazione della casa automobilistica giapponese Nissan che aveva minacciato di fermare la produzione in loco del suo crossover.

Le affermazioni del ministro inglese che hanno scatenato la bufera

A soffiare sul fuoco era stata inizialmente la ministra degli Interni inglese Rudd, che pareva aver scelto il modello ungherese del premier nazionalista Viktor Orban, annunciando di voler chiedere alle imprese di rivelare il numero di dipendenti stranieri, con l'obiettivo di favorire l'assunzione di sudditi di Sua Maesta. Una presa di posizione che era stata vista come la conseguenza di quanto accaduto nel voto referendario sulla Brexit a giugno.

"Non chiamatemi razzista", aveva detto la titolare dell'Interno Amber Rudd. "Le mie parole hanno il solo obiettivo di stanare quelle società che abusano delle regole esistenti e spingerle a comportarsi meglio". Il ministro aveva accusato le aziende di non addestrare un numero sufficiente di lavoratori britannici aggiungeno che sarebbe stato "giusto irrigidire l'attuale sistema obbligando le società a pubblicizzare i posti disponibili nel Regno Unito solo per 28 giorni prima di rendere nota questa possibilità lavorativa anche fuori dal Paese".

In base alle proposte avanzate dalla Rudd - che durante la campagna per il referendum era contro la Brexit, come il grosso dei conservatori - le società che dovevano assumere fuori dal Regno Unito avrebbero dovuto dimostrare cosa avevano fatto "per incoraggiare prima i candidati locali" e quale fosse stato l'impatto delle scelte dei candidati stranieri sul mercato del lavoro locale.

Affermazioni, queste, che avevano scatenato uno tsunami non solo politico, poichè la Rudd si era detta pronta "a rivelare i nomi e puntare il dito" contro quelle società che non avessero rispettato i nuovi vincoli. Insomma a fare delle vere e proprie liste nere. "C'è ancora un giovane su 10 disoccupato tra i 18 ed i 24 anni nel Regno Unito. Io voglio che il mondo degli affari pensi prima a persone istruite localmente, dove possibile", aveva sostenuto.

In più, l'altra settimana, a peggiorare la situazione era stata Theresa May che, annunciando per il prossimo marzo il negoziato per l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea, aveva dichiarato: "Se avete perso il lavoro o parte dello stipendio per via dell'immigrazione la vita non vi sembra giusta. Vi capisco". Una visione che si fonda, come ha sottolineato la premier sul conservatorismo sociale che però non era piaciuta per niente agli imprenditori. E nemmeno ai leader Holland e Merkel che avevano bacchettato la Gran Bretagna, Paese che per il momento è ancora uno stato membro dell'Ue, richiamandola all'ordine.

Le critiche di Francia e Germania

"L'Unione europea deve negoziare con fermezza l'uscita del Regno Unito", aveva sostenuto anche il presidente francese Francois Hollande non lasciando spazio a incomprensioni. "Chi esce dall'Europa deve pagare le conseguenze" visto che, dai segnali che mostra, sembra abbia optato per un "duro" divorzio. "Altri Paesi potrebbero voler lasciare l'Ue per ottenere supposti vantaggi senza alcun obbligo", aveva spiegato insistendo sul fatto che "ci deve essere una minaccia, ci deve essere un rischio, ci deve essere un prezzo. Altrimenti avvieremo un negoziato che può non finire bene".

E Hollande non era stato il solo a pensare che la Gran Bretagna, per avere accesso al mercato unico europeo, si dovrà impegnare in "negoziati non facili", legati "al rispetto delle quattro libertà fondamentali, tra cui la libera circolazione delle persone", oltre a quella delle merci, dei servizi e dei capitali. A volerlo è anche la cancelliera tedesca nella sua replica al premier britannico, responsabile del cosiddetto "cherry picking" contro l'Unione europea.

"Se non diciamo che il pieno accesso al mercato unico europeo è legato alla libertà di circolazione allora scateniamo in tutta Europa un movimento in cui ognuno farà solo quello che vorrà" aveva proseguito la Merkel in un convegno, in cui ha invitato gli imprenditori tedeschi a sostenere il principio del rispetto della reciprocità delle quattro libertà fondamentali.

A criticare immediatamente le scelte inglese anche del primo Ministro britannico anche il presidente ad interim della Cbi, una sorta di Confindustria britannica, Adam Marshall, secondo il quale "le aziende fanno già così tanto per addestrare i loro dipendenti e, ovviamente, cerchiamo di assumere locali prima di rivolgerci ai mercati stranieri. Ma non penso che non dovremmo essere penalizzati per aver fatto così finora quando erano richieste capacità specifiche".

La minaccia di fermare la produzione

E dopo gli ultimi eventi della scorsa settimana anche Nissan, l'azienda automobilistica giapponese, aveva preso una posizione minacciando di fermare la produzione del crossover Juke in Gran Bretagna a seguito della Brexit, a meno che il Governo di Londra non trovasse soluzioni per compensare gli eventuali effetti sui dazi doganali.

Cosa ne pensano i media

Ha un volto "meno liberale e più cristiano democratico" il nuovo Partito Conservatore tratteggiato da Theresa May al congresso Tory di Birmingham con l'obiettivo di occupare "il centro della scena" politica in Gran Bretagna e di cavalcare la transizione verso la Brexit come un'occasione di "cambiamento" per il Paese.

Questa era stata la sintesi giovedì scorso di Tim Stanley, commentatore del Telegraph, il quotidiano che oggi vede il ministero degli Interni fare inversione di marcia dopo aver fatto un po' di conti "scoprendo che almeno l'80 per cento dei residenti europei sono in Gran Bretagna da più di cinque anni, il che in base alle leggi in vigore dà loro automaticamente diritto di richiedere una permanent residence card, un permesso di residenza a tempo indeterminato".

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Chiara Degl'Innocenti