Tutte le metamorfosi di Laura Boldrini
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Tutte le metamorfosi di Laura Boldrini

Dalle sabbie dell’Afghanistan ai velluti di Montecitorio: il ruolo del presidente della Camera impone un’evoluzione che è anche estetica e molto tricologica

di Stefano Di Michele

Chissà se, quando ha deciso di legare e innalzare la folta chioma nera, Laura Boldrini voleva in qualche modo farsi evocativa di Nilde Iotti. Probabilmente sì, la totemica figura della presidente comunista di Montecitorio è ancora oggi, nel Palazzo, modello insuperato. E alla seconda donna di sinistra che raggiunge la terza carica dello Stato il paragone forse piacerebbe assai. Il traguardo, per la verità, pare molto lontano.

Fatto sta che, di colpo, elevata allo scranno più alto della Camera, anche tricologicamente Boldrini si elevò. E la pettinatura, prima evocativa di quella di Temperance Bones Brennan, la fascinosa antropologa forense protagonista di una famosa serie televisiva, si è fatta più simile a quella della signorina Carlo, il fenomenale personaggio messo in scena in passato da Anna Marchesini, quella «che siccome che sono cecata», e soprattutto con una monumentale acconciatura detta «la cofana» che allegramente la sovrastava.

Ecco, sarà per abitudine, sarà per vezzo, l’innovativo taglio, più che l’autorevole chignon della Iotti, rammenta la cordiale «cofana» della signorina Carlo.

S’intende che «la presidente» Boldrini(così ha fatto intestare la sua carta da lettera, saggiamente riservando quella già pronta con la scritta «Il presidente» al prossimo maschio che seguirà) di simili banalità non si occupa. Nel tentativo di essere insieme solenne e partecipe (severità di sguardo, indice ammonitore, voce che pare sul punto d’incrinarsi), con generoso dispendio su infiniti argomenti interviene, fossero i diritti dei lavoratori o fosse la coscia sconsideratamente esposta dalla miss, perciò nel giro di poche settimane ha fatto battere in ritirata il suo dirimpettaio Pietro Grasso, presidente del Senato, ben più loquace all’inizio del suo mandato.

Autorevole personaggio, per carità, però meno glamour di chi partì dalle Marche per andare tra i campesinos, di chi ha dormito sui chinchorros nella savana (amache, insomma) per finire sulla poltrona più alta di Montecitorio.
Se il sogno finale è il modello Iotti, l’avvio è piuttosto marcato dal modello Manu Chao.

Così, è su questo duplice binario che la fenomenologia della presidente Boldrini si muove: l’autorevole tailleur, persino a volte un filo di perle quasi thatcheriano; l’argomentare sospiroso di chi il mondo guarda con sguardo impeccabilmente,
politicamente corretto. Vengono annotati dalle cronache i cambi di colore, «dal rosa confetto al grigio perla», non viene tralasciata la segnalazione della «lunga pashmina color melanzana», non manca l’attenzione sugli orecchini, «vera passione di Laura Boldrini».

Un concentrato di simbolismi, la presidente.

Che, avendo rifiutato un invito di Sergio Marchionne e avendo cara piuttosto la causa della Fiom, forse per questo, nel maggio scorso, a un convegno della Confindustria si presentò con inusuali scarpe da passeggio e capelli semplicemente legati all’indietro, spigliata tenuta da spesa al supermarket, quasi a dire: altra cosa io sono, «sciur padrun da li beli braghi bianchi». Che appunto a Fabio Fazio, subito dopo la sua elezione, in diretta tv precisò: «C’ho una storia che parla per me».

Ecco, Laura Boldrini piace molto alla gente che piace, quelli che sempre pensano di avere una storia che per loro parla.

Fazio, mentre faceva l’opportuno baciamano, quasi il ciglio bagnato aveva. «Non siamo tutti uguali, Fazio, non siamo tutti uguali!», e il tono presidenziale s’impennava. E, va da sé, il richiamo «alla figura femminile centrale» nella società, che mai manca, e Fabio che né poteva né sapeva trattenersi: «Lei ne è un bell’esempio». Perciò, piace molto a Concita De Gregorio di Repubblica, che la intervistò sulle banditesche minacce a lei rivolte dai gaglioffi razzisti che bazzicano il web. E, con largo anticipo su tutti, a Famiglia cristiana che nel 2010 la consacrò «italiana dell’anno».

Essendo espressione della «società civile », quasi pare esprimere un’aura che al di sopra della plebe politica la pone, anche se, intelligentemente, non presta mai troppo il fianco alle polemiche, sempre abbondanti, ormai scadenti, sulla vile casta dei partitocratici. Anzi, i grillini delle cinque stelle l’accusano d’essere lei stessa e per prima casta, contrappasso e paradosso, e persino di usare «la Camera come una tv commerciale per la sua immagine» (Beppe Grillo stesso); e singolarissima polemica ha avuto proprio con il suo giovane vice Luigi Di Maio: lei a chiedere sostegno per riportare ordine in aula, quello a rispondere secco che non era lui a presiedere la seduta, perciò provvedesse da sé. Una novità assoluta.

Nel Transatlantico di Montecitorio, neanche quelli del Pd si sprecano troppo.

«Un po’ radical chic» per alcuni. «Un poradical snob» sostengono altri. Boldrini ha quel curioso linguaggio, molto da donna di sinistra intellettualmente impegnata, che passa dall’evocazione dei «saperi e delle conoscenze» all’auspicio dei «ponti culturali», dalla «questione di civiltà» ripetutamente citata ai «bisogni delle persone» perennemente richiamati, con straordinaria motivazione della sua candidatura alle passate elezioni: «per indignazione». E i «generi», «il sessismo», «il pensiero unico», ecc. ecc.: molta gravità, buona la percentuale di banalità.

La fenomenologia di Laura Boldrini (dal Foglio ribattezzata «la badessa di Montecitorio », madre superiora pur solo all’inizio del noviziato) ha sempre questa caratura di esortazione morale e soprattutto moralistica, presidente e un po’ maestrina, e le mani che all’unisono si muovono mentre spiega, sottolinea, si racconta, in assoluta simbiosi, in perfetto equilibrio: insieme si tendono, insieme si aprono, insieme si serrano, e sulla grande pietra di un anello la luce raccolgono e riflettono. «Fa la Iotti, ma è ancora piuttosto Pivetti» sussurra malizioso un deputato.

Frequenta la mensa, mica il ristorante, e i suoi fecero in modo che la notizia si appurasse, e l’ex presidente Pier Ferdinando Casini maliziosamente fece in modo si risapesse che prima di lei anche lui lì con modestia si cibava. Eppure, in pochi mesi, a parte la teppaglia che vaga per internet e gli avversari politici più scontati, Boldrini ha sollevato le vivaci perplessità di Giovanni Sartori sul Corriere della sera, che la definisce «una raccomandata » e sul quotidiano si accanisce: «Molta sicumera, molto presenzialismo femminista ma scarsa correttezza e anche presenza nel mestiere che dovrebbe fare».

E persino quelle di Fiorello, dopo essersi sperticata nelle lodi alla Rai per la mancata trasmissione di Miss Italia. Altra tipica uscita alla Boldrini: ove la soddisfazione (se mai la presidente della Camera dovesse esprimere soddisfazione o riprovazione per un programma televisivo) veniva abbigliata con più elevate riflessioni, «una scelta moderna e civile e spero che le ragazze italiane per farsi apprezzare possano avere altre possibilità che non quelle di sfilare con un numero».

Per poi numeri a sua volta esibire: «Solo il 2 per cento delle donne in televisione esprime un parere, parla. Il resto è muto, spesso svestito, non ha modo di esprimere un’opinione». «Snobismo e ipocrisia» ha replicato Fiorello «ci sono cose molto più vergognose ». E poi il gioco, vetusto e innocente, di Miss Italia «non ha mai fatto male a nessuno». Sarà per questo suo interventismo a raffica, parole ammonitrici e studiato sguardo severoindignato- compassionevole, che Dagospia l’ha ribattezzata «la Boldrinova», custode di un politicamente corretto un po’ asfissiante.

Sia come sia, ha dovuto scrivere all’amata «Repubblica», la presidente, per disincagliarsi dalle polemiche intorno a Mission, una sorta di simil-reality che doveva essere girato nei campi profughi del Sudan, con la partecipazione di vip transitanti per simili trasmissioni. Qualcuno l’aveva chiamata in causa, avendo avuto contatti, da portavoce dell’Unhcr, proprio con la Rai a proposito del progetto. Non negò, ma precisò: «Venne da me suggerito un format australiano, molto apprezzato, in cui a essere coinvolte erano persone comuni, con idee molto diverse tra loro in tema di asilo, e comunque non certo vip». Né reality, disse. E anzi, per l’occasione, nella missiva, «l’autonomia editoriale della Rai» lodò e invocò. E Miss Italia, allora? «Le mie poche parole su Miss Italia, che tanta risonanza hanno avuto, sono venute solo a commento di una decisione che la Rai aveva già preso».

«Seguo la mia coscienza» dice di sé. «Non sono conformista» si autocertifica. Fatto sta che «la bella sorpresa», che un giorno i democratici le annunciarono, quando la proposero per lo scranno più alto, lei non manca quasi quotidianamente di renderla a un più vasto pubblico. La storia di Nilde Iotti, l’irraggiungibile modello che Le Monde ribattezzò «la gran signora della politica italiana», è finita su un palcoscenico, in un appassionante spettacolo teatrale. Ché la sua storia parla per lei. E che forse mai disse, pur potendo, «c’ho una storia che parla per me». Inutile rammentarla, se ha qualcosa da dire.

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