La Sicilia e la sciagura dei simboli
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La Sicilia e la sciagura dei simboli

Paladini contro l'immigrazione, vittime di mafia, ex magistrati. Tutti li strattonano per candidarli alle elezioni

Non la disoccupazione, non la carenza di infrastrutture e neppure la criminalità. No. La più grande sciagura siciliana sono i simboli.

Cercati, spacciati, manipolati e infine candidati. Uno di questi era - e purtroppo ancora lo è - il governatore Rosario Crocetta.

Il Pd lo ha proposto perché omosessuale e sotto scorta per intimidazioni mafiose. I siciliani gli hanno dato fiducia e lo hanno eletto nel novembre del 2012. Subito dopo la vittoria, non si contano i giornali – quelli esteri si paracadutarono – che hanno salutato la sua elezione come un «cambio di costume millenario» e dunque la fine dell’isola feroce e mascolina. Naturalmente è stato strattonato lo scrittore Vitaliano Brancati e la sua costruzione letteraria “il Dongiovannismo”

«Finalmente è finito il Dongiovannismo» titolarono frettolosamente i giornalisti euforici e avvalorarono gli storici ubriachi. Sappiamo come è finita. Il governo Crocetta è stato l’esperimento politico più disperato che la Sicilia ricordi. In cinque anni si sono succeduti quasi 50 assessori. I guasti economici non solo non sono stati debellati ma se possibile – ed è stato possibile – incrementati. Ma andiamo oltre.

Un altro simbolo siciliano giustamente elevato ma maldestramente esibito (anche oltreoceano) è stato il sindaco di Lampedusa, Giusy Nicolini. Le istituzioni hanno gareggiato a chi prima le conferisse un premio e un’onorificenza.

L’ex presidente Matteo Renzi l’ha voluta con sé alla cena con Barack Obama. Se avesse solo potuto, l’avrebbe già candidata al parlamento o all’europarlamento. Per il momento, più modestamente, le ha dato un posto nella segreteria nazionale del Pd. Gli elettori di Lampedusa – che sia chiaro non sono diventati degli xenofobi improvvisamente – alle scorse elezioni del 23 giugno 2017 hanno spiegato chiaramente che un simbolo non è per forza, e per sempre, un buon amministratore.

Alla Nicolini hanno preferito un altro candidato che si chiama Totò Martello. La Nicolini non è arrivata seconda dopo Martello ma bensì terza. Ma continuiamo. Per le prossime elezioni regionali, il Pd, che non ha ancora un candidato, ha tentato di convincere Pietro Grasso. A oggi, Grasso è presidente del Senato. Per candidarsi, Grasso, avrebbe dovuto dimettersi anticipatamente da presidente provocando così un ingorgo istituzionale. Anche Grasso, che sciocco non è, ha compreso che erano più i danni che i benefici di una sua eventuale candidatura a presidente della Regione Sicilia.

Ma arriviamo a oggi. Ancora senza un nome, il Pd, sta pensando di candidare, si dice proprio su suggerimento di Grasso, l’europarlamentare Caterina Chinnici. Si tratta della figlia di Rocco Chinnici, giudice caduto durante la sua attività di repressione alla mafia il 29 luglio 1983. La Chinnici non ha ancora deciso ma nel caso rifiutasse ci sarebbe pronto un altro simbolo. In questo caso è doppio. Parliamo di Bernardo Mattarella che è nipote di Sergio, presidente della Repubblica, e figlio di Piersanti, altra vittima di mafia.

Ma oltre a questi nomi, il Pd ha più volte, e non è un mistero, provato a coinvolgere, e quindi candidare, i figli di Paolo Borsellino. Parliamo di Manfredi e Fiammetta. Sono volti che hanno sempre scelto la riservatezza e la discrezione e che finora hanno sempre rifiutato. Chi ha accettato di correre in politica è stata la zia Rita. Il Pd l’ha candidata alle scorse elezioni primarie a sindaco di Palermo (le ha perse) e all’europarlamento dove ha seduto dal 2009 al 2014.

Un’altra Borsellino che, pentendosene, ha accettato di occupare una carica politica è stata Lucia. Da Crocetta le furono affidate le deleghe alla Sanità. Divenne assessore ma si dimise il 2 luglio del 2015. Il suo nome finì al centro di una storia fatta d’intercettazioni pubblicate, smentite e mai trovate. L’aspetto torbido coprì quello politico. La Borsellino, che è un simbolo, venne osteggiata dall’amministrazione regionale per le sue scelte nel campo della sanità che stava provando a riformare.

Questa è una brevissima storia dei simboli in Sicilia.

I simboli in Sicilia, il più delle volte, sono proclamati per patrimonio genetico e non per azioni compiute. Contesi dai partiti, impiegati in ruoli strampalati, i simboli alla fine vengono accantonati. Solitamente sono i simboli stessi a uscire da queste esperienze esauriti, frantumati e stravolti. La fine del simbolo in Sicilia è il ridicolo. Quasi sempre, di un simbolo, il giorno in cui si dimette, si dice: «Era un cretino».

Ecco, se davvero ancora abbiamo bisogno di simboli – e siamo i primi a pensare che ne abbiamo bisogno – il modo migliore è quello di allontanarsene. Essere un paladino dei diritti omosessuali non ne fa un competente presidente di Regione. Difendere la solidarietà non si traduce in abilità amministrativa. Essere stati dei valorosi magistrati non ne fa un candidato adatto. Oggi siamo dunque convinti che la più grande emergenza della Sicilia è la simonia di simboli.

È chi li fa salire in politica che in realtà li fa precipitare. È chi si limita a osservarli che invece li conserva.



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Carmelo Caruso