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La caduta di Berlusconi, novembre 2011: cronaca di una congiura annunciata

La gravità di quanto accadde sta nel fatto che non ebbe bisogno di anfratti o penombre. Avvenne tutto alla luce del sole

Lo sapevano i muri, va bene. Persino le pietre ne discutevano, d'accordo. Panorama in edicola il 20 luglio titolava: «Per uscire dalla crisi serve una leadership nata dal consenso, non un governicchio di ribaltone o un obliquo governo tecnico». E insomma sì, in quell'estate imbrogliona che portò via il leader nato dal consenso (Silvio Berlusconi) e spalancò le porte all'obliquo governo tecnico non c'era anima della politica che non vedesse l'incedere in lontananza del professor Mario Monti.

Il 18 luglio a Ca' de Sass, palazzo simbolo della finanza milanese, s'incontrarono Romano Prodi con Giovanni Bazoli, Carlo De Benedetti, Corrado Passera, Mario Monti e il banchiere Angelo Caloia.
Il quotidiano La Stampa scrisse che Prodi sussurrò a Monti: «Caro Mario, secondo me Berlusconi non se ne va neppure se lo spingono, ma certo se le cose volgessero al peggio, credo che per te sarebbe difficile tirarti indietro».

Tutto ciò premesso: la straordinaria gravità di quanto accadde nel 2011 sta proprio nel fatto che la congiura non ebbe bisogno di anfratti o penombre, di messaggi cifrati e ambasciatori in incognito. Avvenne tutto alla luce del sole. Gli eventi, dentro e fuori l'Italia, si dispiegarono con una tale limpidezza da rendere inutile il ricorso ai giallisti. Oggi, con le dichiarazioni-confessioni di alcuni protagonisti di allora, abbiamo unicamente la certificazione di quanto già si sapeva.

E cioè che un gruppo di potere con solide ramificazioni politiche nella finanza internazionale e con profonde radici nella costruzione del consenso agi con l'autorevolissimo avallo del presidente della Repubblica per rimuovere dalla scena politica Silvio Berlusconi.

Non fu un complotto perché questo, per realizzarsi, necessita di una precondizione: dev'essere segreto. Quella del 2011 fu piuttosto una cospirazione alla luce del sole condotta dentro e fuori dal nostro Paese, come potete leggere nella documentatissima ricostruzione di Stefano Cingolani. Contro Berlusconi agirono contemporaneamente i prestigiatori di quel colossale imbroglio chiamato «spread» e una magistratura smaccatamente connotata dal pregiudizio.

I due fronti furono aiutati un bel po' dai corifei editoriali del gruppo Repubblica-L'Espresso il cui gran capo De Benedetti un po' congiurava e un po' s'ingrassava proprio nel luglio 2011 (ma guarda un po' le coincidenze) grazie a un agguato imprenditoriale contro il Cavaliere, sotto forma di sentenza, che gli destinava 560 milioni di euro.

Ma tutto ciò, è bene ribadirlo, trovò cittadinanza perché dal Quirinale non venne alzata non dico una barricata ma neppure una paretina. Al contrario, si favorì la catarsi. Ed è certamente anche per questo motivo se il gradimento del presidente è precipitato a percentuali sconosciute nella storia repubblicana.

Oggi lo stesso Giorgio Napolitano, al quale sfuggì di mano la crisi del 2011, si trova a gestire la catastrofe del governicchio presieduto da Enrico Letta. C'è Matteo Renzi alle porte e se le cose andranno come alcuni retroscenisti di palazzo suggeriscono, Renzi sarebbe il terzo presidente del Consiglio, dopo Monti e Letta, chiamato alla guida del Paese senza un'investitura popolare. Non le pare di esagerare un tantinello, signor presidente?

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Giorgio Mulè