Jfk, quei mille giorni alla Casa Bianca
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Jfk, quei mille giorni alla Casa Bianca

Efficace in patria, incerto nelle relazioni internazionali dove affrontò le fasi più drammatiche della Guerra fredda: un bilancio della (breve) presidenza di Jfk a 50 anni dalla morte

In casa: i colpi di coda del maccartismo e il “governo ombra” di Pentagono e Cia poco propensi a cedere al presidente il pallino della sicurezza; gli scontri razziali e la nascita delle contestazioni di massa; una crescita economica col fiatone e troppo incline alle diseguaglianze.Fuori casa: la costruzione del muro di Berlino con annesse tensioni; due crisi cubane, una delle quali portò Washington a un millimetro dalla guerra termonucleare; l’inizio del conflitto in Vietnam.

Basterebbe questo elenco, breve e neppure esaustivo, di alcune delle emergenze di politica interna ed estera affrontate da John Fitzgerald Kennedy per capire quanto possa essere stato travagliato quel suo primo e unico mandato presidenziale. E per giustificare un dibattito intensissimo tra storici e politologi sul giudizio da assegnare a quel periodo. In altre parole: quei mille giorni alla Casa Bianca hanno davvero rappresentato un periodo di rottura, come la campagna elettorale del 1960 promise e come la vulgata popolare introiettò da allora, giungendo a dipingere l’attentato a Jfk come una conseguenza diretta dei suoi atteggiamenti politici?

Difficile sposare una o l’altra tesi. Ma di certo se diamo un’occhiata alle principali mosse del presidente e del suo staff (il più giovane di un’amministrazione statunitense fino all’avvento di Barack Obama nel 2008, e anche quello con più ministri e consulenti pescati al di fuori della politica) la discontinuità con il passato appare evidente. Così come l’impronta riformista sul fronte interno che pure resterà in secondo piano rispetto alle contraddizioni della politica estera.

Il terreno economico fu quello dove probabilmente l’amministrazione Kennedy riscosse i successi più importanti e più sottovalutati. Dopo il boom del dopoguerra, una magnifica prima metà degli anni Cinquanta e un rallentamento sensibile nella crescita del Pil americano a cavallo tra il 1959 e il 1960, alla data dell’insediamento di Jfk (gennaio 1961) gli States sono a rischio recessione, con i consumi fermi, un tasso di disoccupazione salito al 7% della popolazione attiva e molte periferie industriali in ebollizione. Kennedy, vincendo anche le resistenze dei demoocratici più moderati all’interno di Congresso e Senato, recuperò le politiche keynesiane di Roosevelt varando un maxipiano di opere pubbliche accompagnato da un aumento dei sussidi ai disoccupati e del salario orario minimo. In aggiunta alzò il contributo pubblico e il fondo di garanzia mutui per gli enti locali, innestando così un circolo virtuoso che però causò un innalzamento del debito pubblico. Fatto, questo, che gli costò le accuse di “assistenzialista” e “socialista” da parte dei repubblicani. Comunque soddisfatti perchè buona parte delle risorse aggiuntive stanziate da Washington nei due anni successivi finorono invece all’industria degli armamenti e a quella aerospaziale. I risultati si videro abbastanza presto: a fine 1963 la crescita si attestava sul 7% annuo, l’industria aveva recuperato competitività ed erano stati creati 1,2 milioni di nuovi posti di lavoro.

Decisamente più controversa fu la gestione della questione razziale. La Corte Suprema statunitense si era pronunciata nel 1954 contro la segregazione nelle strutture pubbliche, vietandola; tuttavia molte scuole e università, soprattutto negli stati meridionali, non rispettavano la decisione. Rimanevano inoltre in vigore le pratiche di segregazione razziale sugli autobus, nei ristoranti e nei cinema. Nel 1962, centinaia di migliaia di statunitensi guidati da Martin Luther King marciarono in tutte le grandi città americane. Jfk sostenne, anche nel suo discorso inaugurale, l'integrazione razziale ed i diritti civili (uno dei testimonial fondamentali per la sua capagna era stata proprio la moglie di King, all’epoca recluso), guadagnandosi il consenso e i voti della popolazione nera.

Tuttavia è opinione abbastanza diffusa tra gli storici che la paura di irritare le frange più conservatrici di Washington, già allarmate per una sua presunta morbidezza nei confronti dell’Unione sovietica, lo portò a frenare, in alcuni casi ostacolando letteralmente il passaggio delle leggi sui diritti civili attraverso il Congresso, dominato da Democratici del Sud, e allontanandosi dalle posizioni dei movimenti. Un approccio che gli costò duri scontri anche con il fratello Robert, allora ministro della Giustizia ed esponente dell’ala più riformista del partito democratico. Sarà proprio Robert, nel 1968, a ricucire la frattura tra i Kennedy e la comunità nera duettando con il reverendo King durante la sua campagna elettorale. Quell’anno anche Bob e King verranno uccisi, ancora una volta apparentemente per mano di killer solitari e fuori di testa. Ma il cambiamento non tarderà comunque ad arrivare.

In politica estera Kennedy fece indubbiamente degli errori ma, anche qui la stragrande maggioranza degli storici concorda sul fatto che furono dovuti, in primis, a un’escalation delle tensioni internazionali che sarebbe stata difficile da fronteggiare per chiunque e, soprattutto, a una vittoria risicata che gli aveva impedito di procedere a uno spolis system adeguato delle gerarchie militari e di intelligence, costringendolo così a mediare con una fazione molto più rigida. L’esempio più clamoroso è quello che riguarda Cuba, dove nel 1959 era salito al potere Fidel Castro e nel 1960 era entrato in vigore l’embargo statunitense. A meno di tre mesi dal suo insediamento Kennedy, su insistenza del Pentagono, adottò un piano messo a punto dall’amministrazione precedente per deporre Castro. Con la supervisione di Allen Dulles della CIA , oltre al famoso tentato sbarco nella Baia dei Porci , in cui 1.500 cubani anticastristi vennero sconfitti dalle forze regolari cubane, si realizzò l'Operazione Mongoose ("piano Mangusta"), volta al sabotaggio delle infrastrutture economiche cubane. È in questo clima di tensione crescente, che portò Castro ad avvicinarsi sempre più rapidamente alla protezione sovietica, che maturò la crisi dei missili di Cuba , forse il momento in cui il mondo fronteggiò più da vicino il rischio della terza guerra mondiale.

La storia, magistralmente ricostruita nel film del 2002 Thirteen days, iniziò il 14 ottobre 1962, quando un aereo spia americano fotografarò un sito cubano dove era in costruzione una base missilistica sovietica. Kennedy si trovò di fronte un pesante dilemma: se l’aviazione statunitense avesse attaccato il sito, avrebbe rischiato di provocare la reazione sovietica. Ma se non avesse fatto nulla, sarebbe stata costretta a convivere con una permanente minaccia nucleare nella propria regione d’influenza, in una vicinanza tale da rendere quasi impossibile un contrattacco qualora i nemici avessero attaccato per primi. E ancora, la paura che gli Stati Uniti apparissero deboli agli occhi del mondo. Molti ufficiali militari e ministri del governo Kennedy fecero pressione per un blitz, ma Kennedy preferì ordinare un blocco navale ed avviare negoziati informali con mosca. Una settimana dopo raggiunse un accordo con il Segretario Generale del Pcus, Nikita Khruščёv , che si impegnò a ritirare i missili in cambio dell'impegno degli Stati Uniti di non invadere Cuba e di ritirare i propri missili nucleari dalla Turchia nel giro di pochi mesi.

La crisi dei missili ebbe tuttavia effetti positivi sulle trattative tra i due blocchi circa la limitazione dei test nucleari. Sia Kennedy che Khruščёv, consapevoli di essersi trovati sull'orlo di una guerra atomica, cercarono di diminuire le tensioni attraverso una fitta corrispondenza. Questa culminò nel 1963 con l'inizio ufficiale dei negoziati, assieme alla Gran Bretagna, che portarono alla firma del Partial Test Ban Treaty , il 5 agosto dello stesso anno. Il trattato, considerato uno dei successi diplomatici dell'amministrazione Kennedy, proibiva agli Stati aderenti qualsiasi esperimento nucleare nell'atmosfera. Per il resto, Kennedy cercò di contenere la diffusione del comunismo in America Latina e Africa postcoloniale fondando la Alliance for Progress , che inviò aiuti alle nazioni in difficoltà e cercò di imporre un maggior rispetto dei diritti umani nella regione. Kennedy istituì, durante il primo anno della sua presidenza, anche i Peace Corps , un programma di volontariato rivolto ai paesi in via di sviluppo. Il progetto aveva il compito principale di promuovere una migliore immagine degli Stati Uniti nei Paesi in cui essa era compromessa dalla diffidenza verso gli americani e al tempo stesso di fornire un aiuto tecnico. I Peace Corps, tuttora esistenti, rimangono una delle eredità più durature dell'amministrazione Kennedy.

Il Vietnam , infine, rappresenta la frontiera forse più dibattuta della politica estera kennediana. Diviso in due come era e come è ancora oggi la Corea (comunisti al nord e filo-occidentali al sud), durante la sua presidenza a seguito di continue minacce all'indipendenza dello stato meridionale il Paese vide crescere il numero di soldati americani presenti “a tutela” di Saigon da poche centinaia fino a quasi 20 mila. Una militarizzazione che fece crescere la tensione non solo con l’Urss ma anche con la Cina, che foraggiava il regime del Nord di Ho-Chi Minh, e alla quale Jfk pareva intenzionato a mettere fine con la firma di un nuovo memorandum sulla sicurezza nazionale, approvato nell’estate del 1963 e nel quale si predisponeva un graduale disimpegno statunitense dall’area. Per ironia della sorte, il rimpatrio dei primi 2 mila Marines ebbe luogo a Dallas il 21 novembre 1963, proprio alla vigilia dell’attentato. Nell'agosto del 1964 il presidente Lyndon Johnson , prendendo spunto da una sparatoria avvenuta nel golfo del Tonchino , si presentò di fronte al Congresso degli Stati Uniti facendosi dare adeguati poteri per intraprendere iniziative militari. Iniziava la guerra del Vietnam

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Gianluca Ferraris

Giornalista, ha iniziato a scrivere di calcio e scommesse per lenire la frustrazione accumulata su entrambi i fronti. Non ha più smesso

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