Scontri a Nahal Oz
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Israele e l’Intifada dei coltelli: come annullare il terrorismo con il dialogo

La rivolta palestinese non dovrebbe generare risposte miopi, fondate solo sull'idea che dopo la violenza sia possibile solo altra violenza

Una escalation nella pluridecennale contrapposizione tra Israele e Palestina che subisce ciclicamente improvvise escalation.

È questa l’estrema sintesi di ciò che va accadendo in questi giorni a Gerusalemme, dove quella che è stata già rinominata "Intifada dei coltelli" rischia di precipitare di nuovo la regione nel caos.

A dire il vero, la regione nel caos c’è già e anche da diverso tempo, soprattutto adesso che dalle alture del Golan si affacciano minacciosi nuclei di jihadisti, intenzionati a sovvertire l’ordine costituito e a modificare i confini nazionali.

Il fondamentalismo all'attacco di Israele
Così come già accaduto per l’Iraq e la Siria, infatti, spinte fondamentaliste puntano in un prossimo futuro a scardinare anche lo stato di Israele.

Ma tutto questo non riguarda direttamente i giovani palestinesi che, preda dell’odio e della frustrazione, compiono gesti disperati e si trasformano in assassini, fomentati dalla discriminazione e dalla pluriennale segregazione.

Anche lo scorso anno si gridò alla “Terza Intifada”, quando dei rabbini furono uccisi all’interno di una sinagoga da giovani palestinesi della media borghesia di Gerusalemme ovest. E così oggi la cosiddetta “Intifada dei coltelli” suscita e preconizza scenari di escalation delle violenze nei territori occupati.

Non proprio un'Intifada
La questione è scivolosa. Con il termine “Intifada” (rivolta) si definiscono le due precedenti sollevazioni palestinesi andate in scena nei territori occupati, a partire già dagli anni Ottanta. Quella di oggi, tuttavia, mostra alcune differenze sostanziali rispetto ai precedenti storici.

Su tutte, l’appello a colpire gli ebrei per mezzo di armi da taglio. Fatto che di per sé riduce e limita l’offensiva e il tipo di attacchi, disegnando uno scenario “spontaneo” e “popolare”, e allontanando invece l’ipotesi che dietro vi sia una mano che li organizza e li controlla. Ma qualcuno preme perché ciò accada davvero.

La visione di Israele
Secondo fonti vicine all’intelligence israeliana, infatti, la campagna di terrore dimostrerebbe un’orchestrazione precisa e disegnata in più fasi: anzitutto, le settimane passate a lanciare pietre e bombe incendiarie a Gerusalemme; poi gli attacchi in Giudea e Samaria; quindi, l’uso di armi da fuoco per scontri con le forze di sicurezza a Gerusalemme; infine, la mobilitazione propagandistica volta a generare veri e propri disordini nelle comunità arabo-israeliane in tutta la regione.

Il pericolo degli attacchi suicidi
Ciò nonostante, il vero pericolo di un’escalation risiede negli attentati suicidi. Domenica 11 ottobre, fonti della sicurezza affermano di aver fermato una giovane donna palestinese mentre si recava da Jabel Mukaber al centro di Gerusalemme, alla guida di un veicolo pieno di esplosivo. La donna, fermata per un controllo, avrebbe lanciato un ordigno esplosivo al grido di “Allah è grande”, ferendo in modo grave se stessa e un poliziotto. Se dovesse delinearsi questa prospettiva, sarebbe il segno che in effetti una strategia c’è.

La sconfitta di Hamas nel 2014
Ma se anche fosse, è un affare tutto interno al mondo palestinese. Dove Mahmud Abbas, presidente di quella Palestina che ha appena ottenuto un riconoscimento ufficiale e una bandiera sventolante al Palazzo di Vetro dell’ONU, ha forse perso il controllo degli elementi più radicali di Hamas. I quali vorrebbero tornare a far sentire la propria voce, dopo la carneficina del luglio dello scorso anno, quando gli islamisti hanno lanciato piogge di razzi su molte città israeliane, tra cui Tel Aviv, provocando una durissima reazione.

Dopo l’operazione militare dell’esercito israeliano denominata “Protective Edge”, le infrastrutture di offesa di Hamas, dagli arsenali ai tunnel, sono state distrutte con bombardamenti spaventosi, che hanno profondamente messo in crisi l’ala militare del jihadismo palestinese, oggi quasi disarmato (da cui, l’uso di coltelli).

Il processo di pace tra Israele e Palestina si è arenato da allora.

Il dialogo mancante
Ma l’errore di Israele è forse più grave di quello di chi alimenta l’odio confessionale e la cultura della morte. Dopo aver vinto le battaglie per la propria sicurezza interna, infatti, il governo di Tel Aviv si sente ogni volta sufficientemente appagato, e dimentica sempre di far seguire alla fase bellica, una seconda fase: quella del dialogo. Se la guerra è la prosecuzione della diplomazia con altri mezzi, è vero anche il contrario.

Israele grida all’assenza d’interlocutori credibili per instaurare il dialogo, asserendo anche che Hamas non rappresenta tutte le forze dell’opposizione palestinese. Ma Tel Aviv, al netto delle dinamiche interne della comunità palestinese, deve decidersi a superare il rifiuto ideologico del dialogo, all'insegna del “non si parla con i terroristi”.

Semplicemente, perché questo sistema non paga e ciclicamente la popolazione ebraica torna a vivere nella paura e nella consapevolezza che ci sarà una nuova guerra. Come l’Intifada dei coltelli insegna.

Il terrorismo può evolversi
Se guardiamo alla storia di Israele, inoltre, scopriamo che ciò non è sempre stato vero e che il terrorismo può anche evolvere in forme politiche: prima di diventare primo ministro d’Israele, Menachem Begin comandava una sanguinaria organizzazione terroristica, l’Irgun Zvai Leumi durante la guerra d’indipendenza. E tra le sue imprese va ricordato l’attentato del luglio 1946 che a Gerusalemme distrusse il King David Hotel, uccidendo 91 persone.

Come spesso accade, dunque, da terrorista a padre della patria il passo può essere breve. Diventato primo ministro, Begin ha avuto il coraggio di sedersi al tavolo dei negoziati di Camp David nel 1978, e di firmare il trattato di pace con l’Egitto, guadagnandosi addirittura il premio Nobel per la Pace.

La politica di Netanyahu
Dunque, il terrorismo si può battere con l’accettazione del nemico. Inutile insistere a vietare a giorni alterni l’ingresso della popolazione musulmana alla Moschea di Al Aqsa. Pericoloso schierare l’esercito che, più che una protezione, offre una provocazione agli occhi dei palestinesi.

Il premier tra due fuochi
Il premier israeliano Netanyahu oggi è preso tra tre fuochi: da un lato, la destra religiosa israeliana che preme perché la spianata torni in mani israeliane; dall’altro, l’esigenza di non incrinare eccessivamente i rapporti con i Paesi arabi e con l’Autorità Nazionale palestinese, che finora si sono rivelati preziosi per prevenire più gravi attentati contro il suo popolo.

Da ultimo, deve guardarsi dal crescente furore jihadista - soprattutto in Egitto e Siria - che punta a espandere il proprio credo radicale a discapito di Israele stesso, stabilendosi nei territori palestinesi e scalzando persino Hamas.

Vista corta dei politici israeliani
Ma, in conclusione, il pericolo più imminente resta la visione a breve termine dei politici israeliani, condotta a discapito di una visione a lungo termine, che prima o poi dovrà determinare un cambio di passo nei confronti della Palestina, pena il ripetersi ciclico e ottuso della violenza.

Manifestazioni sul confine Gaza/Israele
MOHAMMED ABED/AFP/Getty Images)
12 ottobre 2015. Un giovane palestinese mostra il segno della vittoria dall'interno della Striscia di Gaza, sul confine con Israele, a est di Bureij.

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Luciano Tirinnanzi