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Pretese e pressioni eccessive; così i genitori fanno il male dei figli

Sempre più spesso dietro debolezze e crisi dei ragazzi ci sono atteggiamenti non corretti di madre e padri

Negli ultimi quindici anni ho riscontrato una continua crescita di ragazzi e giovani adulti che giungono in studio a seguito di un “improvviso” crollo che compete tutte le aree di vita. Tra i vari motivi alla base di questa richiesta di aiuto vi è anche l’eccessiva richiesta di performance da parte delle figure genitoriali. Dai colloqui coi genitori spesso emerge il bisogno, nei confronti dei propri figli, di soddisfare le proprie aspirazioni. Emergono frustrazione rispetto al non essere stati capaci di raggiungere alcuni obiettivi e un’insoddisfazione nei confronti della propria vita lavorativa, personale e sportiva. I figli divengono così la loro possibilità di realizzazione. In questo processo i desideri dei figli, le loro caratteristiche temperamentali e cognitive, vengono messi in secondo piano. Troviamo bambini e ragazzi che si impegnano allo stremo per non deludere l’aspettativa genitoriale con la tendenza ad assumere condotte compiacenti come conseguenza delle necessità di soddisfare le presunte esigenze avanzate dagli altri. Si sviluppa così un’inclinazione ad assumere condotte e posizioni sia a livello comportamentale che di pensiero, di tipo dicotomico: buono vs cattivo. In questa disposizione troviamo una polarizzazione di parti del Sé all’interno di una personalità che riesce ad essere comunque sufficientemente adeguata e coerente con la realtà per mantenere e mostrare un apparente, per quanto precario, equilibrio psichico, fino a quando non subentra il crollo. Questa ambivalenza risulta sfuggire al controllo volontario e razionale del soggetto.

La difficoltà riferita dai giovani pazienti consiste nel far prevalere la parte “buona” del Sé per proteggersi, e proteggere gli altri, da quella “cattiva”, non rispondente alle aspettative dell’Altro e quindi inaccettabile, sebbene, o forse proprio perché, maggiormente veritiera. Vi è così la comparsa del Falso Sé che si è sviluppato su una base di sottomissione e di contatto passivo con le richieste derivanti dalla realtà esterna. Di fronte a richieste ambientali anomale, avanzate in tale fase evolutiva, il bambino rinuncia ai propri desideri per accettare richieste nocive, plasmandosi sulla natura di queste creando così potenziali aspetti psicopatologici. Il meccanismo più importante nella costruzione del Falso Sé è la sostituzione: il caregiver impone il suo desiderio sostituendolo a quello del figlio, generando una trasformazione radicale nel soggetto che deve disinvestirsi dai propri desideri, essendo essi stessi frustrati e negati, per sostituirli con quelli altrui. Si assiste quindi al passaggio da un orientamento interno ad uno esterno, caratterizzato da una pressante desiderabilità sociale, iperinvestimento e sottomissione, grazie ai quali il soggetto impara simultaneamente a negare quei bisogni che caratterizzano normalmente il Vero Sé. Il bambino sviluppa nel contempo una falsa crescita personale fondata sull’obbedienza e sull’accondiscendenza.

I ragazzi e i giovani adulti esprimono il loro timore di deludere sé stessi e gli altri ricercando la perfezione nelle diverse sfere della propria vita. Ottengono ottimi risultati scolastici e sportivi dai quali traggono soddisfazione e conforto, tendono a primeggiare nelle varie attività intraprese con conseguente timore di fallire e di non essere più accettati. Agli occhi altrui, in particolare quelli dei genitori, appaiono perfetti ed eccellenti in ogni ambito sperimentato: dalla scuola, alla vita familiare, dallo sport alla musica, senza mostrare il minimo tentennamento o disaccordo. Tale strutturazione, che implica la rinuncia alla spontaneità, diviene caratteristica apprezzata dall’ambiente circostante in quanto il soggetto appare diligente, educato e rispettoso. La compiacenza, intesa come capacità di sapersi sempre adattare alle richieste ambientali, in particolare quelle provenienti dalle figure genitoriali, prevale a discapito della libera e spontanea espressione di sé. L’altro lato della medaglia è la vergogna.

La vergogna è un’emozione che permea la maggior parte degli aspetti della vita quotidiana. Inconsciamente filtriamo i nostri comportamenti sulla base del rischio a cui ci espongono di apparire folli o inappropriati e di sentirci fraintesi. E quando proviamo vergogna, ci geliamo e ci ritiriamo. Condividiamo le cose di cui siamo orgogliosi e nascondiamo quelle di cui ci vergogniamo. La vergogna è inoltre considerata una misura di quanto è sicuro il nostro attaccamento con le figure importanti della nostra vita. La capacità di correre rischi emotivi è pesantemente influenzata dalla vulnerabilità alla vergogna. Quando siamo in grado di condividere i nostri sentimenti di vergogna, i muri che mettiamo tra noi e gli altri iniziano a cadere e il livello di intimità aumenta. È difficile empatizzare con qualcuno che mantiene una facciata di perfezione. Un senso di orgoglio realistico è un antidoto naturale ai sentimenti di vergogna, così come lo sono il sentirsi amati e rispettati. L’orgoglio ci fa sentire degni, la vergogna indegni.

Le persone che hanno credenze patogene che gli impongono di credere di non meritare ammirazione, è più probabile che si mostrino compiacenti con chi le fa vergognare di sé stesse. Il finto orgoglio è una difesa contro la vergogna e nella maggior parte dei casi indica un’accresciuta vulnerabilità a sentimenti di umiliazione. In genere si associa ad arroganza, disprezzo degli altri e un’aria di superiorità, e aliena le altre persone. I bambini hanno una propensione innata a provare vergogna quando si sentono imperfetti; esporli costantemente a una richiesta di perfezione, per altro irraggiungibile, non può non creare problematiche sul lungo termine. L’autostima, la costruzione dell’identità, il riconoscimento dei propri desideri e il strutturarsi per raggiungere i propri obiettivi vengono compromessi dalla richiesta genitoriale e sostituiti da condotte di compiacimento dell’altro. Tra i modi sani di padroneggiare la vergogna ci sono il perseguimento di realizzazioni speciali di cui potersi sentire orgogliosi, lo sviluppo della resilienza psicologica e della forza fisica necessarie a contrastare esperienze di umiliazione, della capacità di sottrarsi a relazioni degradanti, di trovare partner che ci amano e ci ammirano, e di non infliggere agli altri traumi simili a quelli che ci hanno fatto vergognare. Ci sono anche modi non sani in cui si cerca di padroneggiare la vergogna. Due dei più comuni sono lo sviluppo di una forma compensatoria di arroganza e la tendenza a umiliare gli altri.

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Cristina Brasi