Il fallimento del vertice sul petrolio: Iran e Arabia Saudita allo scontro totale
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Il fallimento del vertice sul petrolio: Iran e Arabia Saudita allo scontro totale

Due concorrenti che puntano alla conquista dell'egemonia in Medio Oriente: Teheran nel nome del blocco sciita, Riad di quello saudita

Due visioni opposte del mondo, due potenze che mirano alla conquista del Medio Oriente, due concorrenti in ogni campo. Non poteva che finire così tra Riad e Teheran

Al vertice di Doha, in Qatar, la riunione di 18 paesi Opec e non Opec per la calmierizzazione del petrolio è andata a vuoto.

L'incontro del 17 aprile doveva strappare un accordo tra le potenze energetiche per un “congelamento”, ovvero una produzione controllata del petrolio, che potesse regolamentare il mercato e limitare il calo progressivo dei prezzi al consumo, un fatto che da mesi terrorizza i mercati azionari. Ma il veto dell’Iran e le note tensioni con l’Arabia Saudita hanno affondato già dalla mattina presto le speranze dell’uditorio.

L’Iran era pressoché l’unico tra i paesi Opec a rifiutare il congelamento della produzione, e la ragione è semplice: da gennaio 2016, ottenuta la rimozione delle sanzioni da parte dell’Occidente in seguito all’accordo nucleare, Teheran può ora rimettere in circolazione il suo greggio nei mercati mondiali, e rilanciarsi economicamente. Dal punto di vista iraniano, dunque, non avrebbe senso accettare di autolimitarsi proprio ora.

La proposta sul tavolo del vertice, infatti, prevedeva un taglio nella produzione di quasi 2 milioni di barili al giorno, mentre l’Iran ha stimato da qui al 2017 di produrne almeno 4 milioni.

Ecco perché i vertici della Repubblica Islamica hanno disertato la riunione, definendo “ridicole” le proposte su cui erano già d’accordo l’Arabia Saudita - vero dominus dell’Opec e primo produttore al mondo di petrolio - ma anche la Russia, che dell’organizzazione invece non fa parte.

Tutto rinviato a giugno
Una nuova decisione è attesa per il mese di giugno, ma nel frattempo il mercato si ritroverà con un probabile nuovo calo dei prezzi del petrolio e un’Arabia Saudita che a sua volta aumenterà unilateralmente la propria produzione, per danneggiare le mire espansionistiche iraniane nel mercato dell’oro nero. Un mercato che, nonostante la “shale revolution” e i timori di un esaurimento dei bacini di produzione petrolifera, domina ancora di gran lunga il mercato energetico mondiale.

Alla riunione in Qatar erano affidate molte speranze: il vertice di Doha era visto come cruciale non solo per la crisi del settore ma anche perché, dopo circa 15 anni, quasi tutti i Paesi produttori al mondo tornavano a riunirsi insieme. Tuttavia, quando si è capito che oltre all’assenza (comprensibile) della Libia, degli Usa e della Cina, sarebbe mancato anche l’Iran, i principi sauditi hanno liquidato la pratica, brandendo come scusa la decisione di far dipendere all’adesione iraniana il via libera agli accordi per il congelamento. L’unanimità che è mancata ha determinato il fallimento del vertice.

Eppure, a Riad sapevano già da tempo che quella proposta sarebbe stata respinta da Teheran, ed era impossibile il contrario. La riunione ha riprodotto plasticamente lo scontro geopolitico, geoeconomico e geostrategico in atto tra due blocchi opposti, quello sciita a guida iraniana e quello sunnita a guida saudita, che dura ormai da anni e che ha prodotto tra l’altro l’intensificarsi della guerra in Medio Oriente. Due visioni opposte del mondo, due potenze che mirano alla conquista del Medio Oriente, due concorrenti in ogni campo. Non poteva che finire così tra Riad e Teheran.

E non c’è motivo di credere che nel prossimo futuro vi possa essere un accordo tra queste due potenze concorrenti, così come nel Novecento (con i dovuti distinguo) USA e URSS rimasero sempre inconciliabili sino al crollo di una delle parti. Mancano, insomma, segnali che possano far sperare in una distensione tra le parti in Medio Oriente, che non solo non si vede all’orizzonte, ma non vuole proprio essere trovata. E che però coinvolge tutti quanti, nessuno escluso, Opec e non Opec. Le conseguenze si vedranno presto.

Cos’è l’Opec
L’Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC) fu costituita da Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela durante la Conferenza di Bagdad nel settembre del 1960. Attualmente, l’Opec conta 12 membri essendosi aggiunti nel corso degli anni ai cinque paesi fondatori: Qatar, Libia, EAR, Algeria, Nigeria, Ecuador e Angola. Dal 1965, la sede dell’OPEC è a Vienna.

Secondo lo Statuto, lo scopo dell’istituzione è “coordinare e unificare le politiche petrolifere dei Paesi membri e tutelare la stabilizzazione del prezzo del petrolio per assicurare un’efficiente, economica e regolare offerta di petrolio ai consumatori, stabilizzare il reddito dei produttori e garantire un equo guadagno al capitale investito nell’industria petrolifera”.

Dal punto di vista dei Paesi consumatori e del mercato, l’Opec però è niente più che un cartello che agisce come un singolo produttore con elevato potere di mercato, e questo è giudicato un male poiché questo sistema produce razionamenti e prezzi più elevati di quelli che si determinerebbero in un mercato di tanti singoli produttori. Viceversa, dal punto di vista dell’utilizzo del petrolio, l’esistenza di un cartello è un bene perché ne riduce il tasso di estrazione, prolungando la durata delle riserve. Al netto delle fughe in avanti di alcuni paesi, come appunto Arabia Saudita e Iran.

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Luciano Tirinnanzi