Enzo Tortora
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Enzo Tortora, quarant’anni dopo

Il 17 giugno del 1983 il celebre giornalista e conduttore televisivo venne arrestato tra lo sgomento dell’opinione pubblica che fino a quel momento lo aveva osannato con ascolti record.

Il suo storico legale, l’avvocato Raffaele Della Valle, appena uscito in libreria con una conversazione con il giornalista Francesco Kostner, “Quando l’Italia perse la faccia. L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora” (Pellegrini Editore), ci ricorda come «l’unico auspicio che rimane è che un caso del genere non si ripeta mai più».

Panorama.it ha chiesto al noto penalista di ricostruirci uno degli errori giudiziari più celebri del nostro Paese ai danni di una delle personalità più amate della televisione, capace di far raggiungere picchi di 28 milioni di telespettatori alla sua trasmissione Portobello.

Avvocato Della Valle, dopo quarant’anni da quel celebre arresto, il caso Tortora non smette di far parlare di sé…

«Quando venne arrestato per ordine della Procura di Napoli con l’accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico, l’Italia intera sbigottì davanti alle immagini di quel celebre giornalista e conduttore televisivo che veniva fatto sfilare davanti alle telecamere con le manette ai polsi, scortato da due carabinieri. Iniziava un calvario umano e giudiziario: Enzo si sarebbe dovuto difendere dalla gravissima contestazione di far parte della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Un orrore giudiziario, appunto!».

Partiamo da molti anni prima: eravate amici.

«Conoscevo Enzo in quanto entrambi militanti nel Partito liberale ed una vicenda particolare -candidati, nel 1978, alla carica di consigliere nazionale di quel partito, a Roma- ci aveva ravvicinati ancor di più. Allo spoglio, dopo una serrata campagna elettorale, i candidati Della Valle e Tortora risultavano inesistenti dai verbali: impugnai la delibera per vizio di forma e poi riuscimmo, tutti e due, a spuntarla. E fu l’inizio del nostro sodalizio: lo avrei difeso anche per ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, ma nulla di paragonabile allo tsunami che lo avrebbe travolto qualche anno dopo».

All’alba del 17 giugno del 1983, lei ricevette una terribile telefonata…

«Erano le 04.40, non potrò mai dimenticarlo. Enzo mi telefonò, aveva la voce rotta dal dolore, pensavo ad uno scherzo, mi lasciò di stucco: “Raffaele, non riesco a capire, sono impazziti, mi stanno accusando di cose assurde. Vieni, corri. Ho bisogno di te”. Era a Roma, alloggiato all’Hotel Plaza ed era appena stato arrestato insieme ad altre 855 persone nell’ambito dell’operazione definita “Il venerdì nero della camorra” condotta dai pm napoletani Lucio Di Pietro e Felice Di Persia».

La sua reazione, avvocato?

«Mi alzai spaventato e non potei fare altro che svegliare il collega Antonio Coppola, del Foro di Napoli, informandolo dell’accaduto e incaricandolo di attivarsi presso l’ufficio inquirente partenopeo per riscontrare quanto Enzo mi aveva appena dichiarato. Quella data, venerdì 17, per noi che avevamo entrambi origine napoletane, fu un presagio».

Lei ha sempre dichiarato che quella telefonata segnò la morte di Enzo Tortora.

«Un’immagine terribile. Anni dopo, parlandone con il caro amico Umberto Veronesi, capii che qualcosa fosse esploso nel corpo di Enzo, che fosse praticamente morto quel giorno: un dolore insopprimibile lo aveva sopraffatto, un dolore che per 5 anni si sarebbe insinuato nel suo corpo fino ad ucciderlo il 18 maggio del 1988. Un calvario fisico cui nessuno e niente riuscì a porre fine, neanche la sua completa assoluzione da quelle farneticanti accuse. Quella voce non sua, mi diede l’immagine della sua fine anticipata».

A quel punto inizia anche la sua battaglia giudiziaria…

«Cinque anni di scontro, con a fianco Antonio Coppola e l’indimenticato professor Alberto dall’Ora, con magistrati che avevano anche eretto una barriera insormontabile: riuscivamo ad avere poche notizie, pochi documenti. I documenti venivano praticamente depositati nelle edicole, sui giornali. Capii il senso di un “processo mediatico”: eravamo sprofondati nella più profonda solitudine, aggravata da un rito -quello inquisitorio- che faceva propendere l’ago della bilancia dalla parte dell’accusa. Oggi, le cose, forse, sarebbero andate diversamente».

Andiamo al cuore dell’accusa.

«Le prime indiscrezioni le appresi dai giornalisti, già ben informati, e ruotavano attorno alla figura di un certo Domenico Barbaro, un asserito camorrista detenuto, considerato il vero pilastro dell’accusa. Questo personaggio aveva inviato un certo numero di centrini di seta, da lui stesso ricamati, perché fossero mostrati durante le puntate di “Portobello”, la celebre trasmissione che in quegli anni faceva 26 milioni di spettatori ogni venerdì sera. Ebbene, il Barbaro, sentitosi preso in giro dalla trasmissione, aveva scritto più volte alla redazione, chiedendo la restituzione o il pagamento della somma di 800mila lire».

Tortora accusato per dei centrini?

«Per i pubblici ministeri nel linguaggio della Camorra i centrini stavano a significare le partite di cocaina. Ecco, Enzo Tortora era accusato di traffico di stupefacenti. Lo seppi durante l’interrogatorio che si tenne il successivo 23 giugno, il più irreale cui abbia mai partecipato in sessant’anni di professione. Mi resi subito conto del clima intimidatorio nel quale si svolse, all’interno del carcere di Regina Coeli».

Toccò con mano l’“orrore giudiziario”…

«Tra domande fantasiose e atteggiamenti irriverenti, saltò fuori anche un’informativa dei Carabinieri scritta a macchina, senza data, senza timbro, senza firma, in cui si raccontava dell’asserita affiliazione di Tortora alla camorra. Dava per accertato che Enzo fosse dedito al consumo di sostanze stupefacenti a causa dell’ambiente artistico che frequentava. A rifornirlo di droga alcuni elementi della NCO che operavano a Milano».

I magistrati inquirenti avevano alzato il tiro.

«E spuntarono i nomi dei due accusatori di Tortora, nomi storici della camorra napoletana, Giovanni Pandico e Pasquale Barra. Il primo, detto “ ’O pazzo”, era addirittura detenuto poichè condannato, con sentenza definitiva, per un duplice omicidio commesso nel Comune di Liveri nel 1970: mi sconvolse che agli atti risultava che questo delatore fosse stato certificato come “paranoico, schizoide, dotato di personalità aggressiva, fortemente condizionato da mania di protagonismo”».

Un mitomane, in cerca di appagamento da protagonismo, si disse…

«Soprattutto pronto a chiamarsi in causa in tutti i più clamorosi casi dell’epoca, dall’attentato a Papa Giovanni Paolo II all’omicidio di Francis Turatello e al sequestro dell’assessore regionale alla sanità della Campania Ciro Cirillo. Evidentemente lo status psichiatrico del Pandico non interessò minimamente i magistrati napoletani…».

Di Pasquale Barra le cronache sono traboccanti.

«Basta partire dal suo soprannome, “’O animale”, per l’efferatezza con cui eliminava i suoi avversari, soprattutto i detenuti. Barra fu capace di costruire un’accusa contro Enzo Tortora che ancora oggi grida vendetta: raccontò che “Enzo Tortora era un caro amico di Turatello, fu conosciuto da Cutolo nel 1978 e fu fidelizzato, come camorrista, nella casa milanese di Nadia Marzano”, ovvero la donna che compariva nella copia sgualcita della carta di identità mostrata a Tortora dal pm Di Pietro nel corso dell’interrogatorio del 23 giugno del 1983».

Raccontò dell’affiliazione di Tortora alla Camorra.

«Barra sostenne che dopo le avances di Tortora a Cutolo affinchè lo accogliesse, quest’ultimo effettivamente gli aprì le porte dell’organizzazione criminale perché il presentatore era un volto pulito, era rassicurante, era insospettabile e riusciva a fare breccia nel cuore dei telespettatori, Insomma, un’ottima copertura».

Una costruzione inquisitoria che ha dell’assurdo…

«Che aveva dell’assurdo già 40 anni addietro! E sulla quale la Procura napoletana non ebbe alcuna remora ad affermare che “Barra dice il vero su Tortora, perché la verità su Tortora gli è stata rivelata, a mezzo di terze e quarte persone, da Cutolo”. In quei mesi spuntavano testimoni come funghi: come non ricordare Rosalba Castellini e il marito pittore Giuseppe Margutti che misero a verbale, il 15 luglio, di aver visto Tortora consegnare una busta con droga ad un gruppo di sodali e di aver ricevuto in cambio una valigetta piena di denaro negli studi di Castellanza della nota emittente televisiva lombarda Antenna 3.».

In questa surreale vicenda, l’accusa a Enzo Tortora si reggeva a stento su nomi errati…

«Sul nome si è compiuta una vera e propria ingiustizia nell’ingiustizia: nei mesi precedenti alla data dell’arresto, all’interno di un’agendina telefonica rinvenuta nell’abitazione di un camorrista, un certo Giuseppe Puca detto “O’ Giappone”, gli inquirenti rinvennero un nome che a prima vista sembrava Tortora, ma che, invece, era di Enzo Tortona, con a fianco alcuni numeri apparentemente telefonici. Solo a distanza di mesi venne appurato che il nome corrispondesse a quelle del noto presentatore televisivo ma ad un tale Enzo Tortona di Salerno. Nemmeno il recapito telefonico risultò appartenere al presentatore».

…e numeri di telefono.

«Durante una delle udienze del processo, i numeri 442160 e 325095, anch’essi rinvenuti in quell’agendina, vennero scomposti e ricostruiti in ogni modo e maniera per ricavarne tutta una serie di combinazioni che, in ogni caso, per i due Giudici istruttori e per il PM non corrisposero all’unico numero telefonico di Enzo Tortora. Il teste Enzo Tortona, esaminato, disse con calma olimpica che “c’è scritto Enzo Tortona, sono io, e i numeri indicati appartengono alla mia utenza».

E si arrivò alla prevedibile sentenza di condanna.

«Il 17 settembre del 1985, dopo 214 giorni di carcere ed un processo che definire tale, oggi, mi fa ancora inorridire, Enzo Tortora venne condannato a 10 anni di reclusione per traffico di stupefacenti e associazione a delinquere di stampo camorristico sulla base delle sole accuse, mai riscontrate, dei due pentiti Pandico e Barra. Personalmente vissi giorni terribili, ero in preda ad una crisi di coscienza, volevo abbandonare l’avvocatura. Enzo Tortora era stato ritenuto affiliato alla Camorra, ma scattò qualcosa in me, nel ritiro in Brianza, dove mi ero rifugiato per redigere i motivi d’Appello, condensati in 484 pagine che depositai presso la Pretura di Monza, per rogatoria, l’8 marzo del 1986».

L’Appello le diede ragione…

«Facemmo leva, tra i tanti motivi, sull’idea che quell’imputato non fosse stato giudicato da Giudici imparziali ma da chi altro non voleva che fare scempio dell’uomo Enzo Tortora. Fui costretto a richiamare tutti i più elementari principi del diritto e della Costituzione per dare una spallata ad un teorema che ancora mi sconvolge. Basti pensare che all’indomani dell’assoluzione, il Procuratore generale di Napoli, Armando Olivares, ricorrendo in Cassazione, esternò alla stampa che sull’assoluzione avessero pesato pressioni della politica e della stessa Camorra».

Come si fa a credere nella Giustizia, quarant’anni dopo quel processo mediatico-inquisitorio?

«L’aspetto più sconcertante di quel drammatico arresto, delle fantasiose indagini e del processo di primo grado è tutto incardinato nell’inaccettabile cultura, oggi come allora, di alcuni magistrati, siano requirenti che giudicanti, che sembrano ignorare quel fondamentale principio di non colpevolezza in favore di un principio, direi medievale, di colpevolezza provata dalle sole indagini, da persone tutt’altro che affidabili, da delazioni, da informatori senza scrupoli».

Tra le foto che ricordano quella vicenda, il suo pianto liberatorio all’esito dell’Appello…

«Avevamo vinto. Aveva vinto un uomo perbene…».

*

Raffaele Della Valle, alessandrino di Aqui Terme, classe 1939, figlio di un magistrato napoletano, è uno dei più importanti avvocati penalisti italiani. Trasferitosi a Monza nel 1946 e laureatosi alla Cattolica di Milano, iniziò la carriera di avvocato, occupandosi -parallelamente- di politica nel Partito Liberale Italiano di cui fu membro del consiglio nazionale. Nel 1994, dopo essere stato uno dei fondatori di Forza Italia, venne eletto Deputato diventando primo capogruppo a Montecitorio e successivamente Vicepresidente della Camera. Ha fatto parte della Commissione Giustizia, nella quale ha svolto l'attività di relatore nel disegno di legge sulla custodia cautelare ed è stato altresì membro della Commissione Stragi. Dal 1996 ha rinunciato ad ogni incarico istituzionale, preferendo dedicarsi agli impegni professionali ed alle innumerevoli associazioni di cui fa parte. Oltre ad aver seguito la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, è stato il legale della famosa modella americana Terry Broome.

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Egidio Lorito