Ikea e la dura legge dei mobili e della mobilità
Economia

Ikea e la dura legge dei mobili e della mobilità

Viaggio in chiaroscuro nell'azienda svedese dell'arredamento low cost

Nello scenario postindustriale di Carugate, a pochi metri dall’uscita della tangenziale che soffoca Milano, il magico mondo dell’Ikea sembra sempre uguale a se stesso. Il parcheggio del negozio è traboccante di veicoli sebbene la settimana sia appena cominciata. Una madre scende dal suv con aria trafelata e irrequieto figlio al seguito: «Dai, amore» lo invoglia «che adesso ti porto nel paradiso dei bambini». Cioè lo Småland: una stanza in cui marmocchi «dai 3 ai 7 anni, alti da cm 95 a cm 135» possono rotolarsi fra palline colorate, scivoli e giochi vari. Accanto al tradizionale punto vendita gialloblù, c’è una grigia palazzina di due piani, quartier generale italiano della multinazionale. Anche qui tutto sembra scorrere come d’abitudine.

Il clima gronda di svedesità: grandi sorrisi, poche formalità, aria frizzantina. Nessuno indossa giacche o tailleur. Giovani manager riempiono scompostamente le sale riunioni: fissano fogli colorati e discutono garbatamente. Il cambiamento più saliente degli ultimi tempi sembra essere stato il nuovo arredamento nell’ingresso: più minimalista grazie a poltrone Mellby, strutture Stolmen e armadietti Bestå.

In realtà, dietro la consueta patina di ottimismo, qualcosa nell’ovattato universo dell’Ikea sembra cigolare. Agli inizi di novembre è deflagrata la «rivolta dei facchini», gestiti da un consorzio di cooperative, nel centro logistico di Piacenza. Di fronte alla paventata cassa integrazione per 107 lavoratori dell’indotto, migliaia di persone hanno rovesciato i propri impropreri in un blog aziendale. Proprio mentre il gruppo svedese comincia a vedere rosso: il fatturato, per la prima volta dal 1988, l’anno dello sbarco in Italia, è diminuito del 2,6 per cento. E le prospettive non sono allegre come una cameretta Hensvik.

Da settembre a oggi il calo delle vendite è diventato a due cifre: «A settembre ci sono stati picchi negativi del 23 per cento» rivela un manager della società. «E i conti del 2011 hanno tenuto solo grazie ai ricavi del nuovo negozio di Catania». I dipendenti hanno così imparato una parola svedese dal suono familiare: «kriisi».

L’indotto potrebbe essere il primo a farne le spese. Calati i volumi, da aprile è diminuito anche il lavoro per il Consorzio Cgs, che a Piacenza gestisce in subappalto il facchinaggio. Alcuni delle cooperative avevano cominciato a protestare, fino a impedire l’accesso dei camion. L’Ikea, come risposta, aveva deciso di spostare temporaneamente la movimentazione delle merci a Lione. Di conseguenza il consorzio ha annunciato la cassa integrazione per 107 dipendenti. Migliaia di persone, la scorsa settimana, hanno riversato il loro scontento nel «Manifesto del cambiamento»: una pagina web creata dall’Ikea con finalità propositive.

Centinaia di messaggi invitavano al boicottaggio, altri biasimavano pesantemente, altri ancora equiparavano gli svedesi ai «crumiri» delle multinazionali. Fino a quando l’Ikea, la mattina di domenica 11 novembre, non ha sventolato la bandiera bianca telematica: «Questo sito ha subito un attacco informatico da parte di hacker. Siamo perciò costretti a oscurare queste pagine per tutelare la privacy di chi aveva lasciato il suo contributo». Atroce nemesi per chi ha impostato tutta la propria comunicazione aziendale sulla sostenibilità sociale e le relazioni amichevoli con i dipendenti e i clienti.

Qualche mese fa era stata invece la direzione francese dell’Ikea a finire nella tormenta mediatica. Il settimanale satirico Canard enchainé a febbraio 2012 aveva accusato la società di assoldare investigatori privati per spiare candidati, lavoratori e rivali commerciali. Mentre a ottobre era stata tacciata di compiacenza verso gli integralisti islamici, dopo avere cancellato tutte le donne dai cataloghi e le pubblicità in Arabia Saudita.

Anche se inarrivabili restano le polemiche, piuttosto datate per la verità, che coinvolsero il fondatore del colosso svedese: l’ormai ottantacinquenne Ingvar Kamprad, occhiali fumé e guance scavate, costretto a confessare pubblicamente (facendo ammenda) il suo filonazismo giovanile. «Mister Ikea» oggi è uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio personale di 18 miliardi di euro. Nonostante questo, veste come un pensionato, abita in un’anonima villetta svizzera, vola solo low cost. Tra le sue massime: «Meglio passare per tirchi che gettare i soldi dalla finestra». Kamprad incarna perfettamente i valori aziendali: niente lussi, sprechi o clamori. Per questo la battaglia sindacale nel polo logistico di Piacenza fa rumore.

La dura legge dell’Ikea colpisce però anche i suoi 6.243 dipendenti diretti (il 67 per cento dei quali ha contratti part time) che guadagnano 800 euro in media, con il blocco del turnover. Seduto su un tavolino del ristorante del negozio di Corsico, Luca Marchi, rappresentante dei sindacati di base, ha appena finito il volantinaggio di solidarietà ai lavoratori di Piacenza. È all’Ikea da vent’anni: «C’è gente che da 5 anni si fa tutte le domeniche, con continui cambi di turno e carichi di lavoro che aumentano» afferma, attorniato da clienti con in mano vassoi pieni di polpettine Köttbullar e salmone Najad.

A Corsico sono sul piede di guerra da anni. Nel 2009 venne organizzato «lo sciopero del pannolino», visto che «l’allora direttore ci cronometrava pure i bisognini» ricorda Kristian Bonfiglio, delegato della Uil. L’anno scorso, l’ennesima protesta era contro l’apertura a Ferragosto. Giuseppe Scottini, 50 anni, addetto al reparto mobili, è uno dei veterani: matricola 122, uno dei primi assunti, nel 1989. «Prima l’Ikea era innovativa» racconta di fronte al distributore di matite e metri di carta. «Ora è un’azienda uguale alle altre». C’è chi la pensa in modo opposto. Alessandro Testa, 50 anni, venne assunto come addetto alle vendite nel 1992.

Ora è il direttore del negozio di Corsico: «Io sono la dimostrazione che questa società offre enormi possibilità a chi vuole andare avanti. E tra i dipendenti la percentuale di soddisfazione resta alta: in pochi vanno via. Anche perché all’Ikea il 27 del mese è il 27 del mese». Perché, a dispetto della «kriisi», la multinazionale resta solida, soprattutto rispetto ai concorrenti: paga gli stipendi, non licenzia e continua ad assumere. Ogni apertura è vissuta in modo messianico. A Catania, 2 anni fa, venne toccato il record: per 240 posti si presentarono in 40 mila. Oro nel deserto occupazionale isolano. Anche se a tempo determinato e per nemmeno 700 euro al mese.

L’Ikea adesso annuncia altre assunzioni: tra 1 anno aprirà un altro negozio a Pisa e serviranno centinaia di persone. Anche la sua comunicazione resta anticonvenzionale e sottile. Un anno fa fece scalpore un manifesto pubblicitario che raffigurava due gay che si tenevano per mano. Sopra il claim recitava: «Siamo aperti a tutte le famiglie». Conseguentemente, la società si vanta di assicurare ai propri dipendenti un welfare moderno, che estende anche alle coppie di fatto. Qualcosa però nel suo magico mondo sembra essersi incrinato. «In passato» sostiene Cristian Sesena, segretario nazionale della Filcams-Cgil, «era un’azienda modello, attentissima ai dipendenti e all’indotto. Adesso invece garantisce soprattutto precarietà retributiva».

A Carugate tutti si affannano perché il mito della famigliola felice non venga infranto. Valerio Di Bussolo, il responsabile delle risorse esterne dell’Ikea Italia, parla del caso Piacenza come di «un incidente di percorso». E adesso? «Ci metteremo attorno a un tavolo e decideremo come rimediare. Privilegiando i fatti e non le parole». E le altre accuse? «Miglioreremo». Davanti all’ingresso del quartier generale, un gruppo di dipendenti, inginocchiato a terra, osserva alcune slide appoggiate su una panchina: parlano inglese e hanno l’aria soddisfatta. Nel mentre il parcheggio adiacente continua a scaricare donne in compagnia di pargoli. Impazienti di tuffarsi tra le palline colorate del paradiso dei bambini.

(ha collaborato Carmelo Caruso)

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Antonio Rossitto