Gucci, il made in Italy siamo noi
Economia

Gucci, il made in Italy siamo noi

Patrizio di Marco, numero uno della fiorentina Gucci, investe per salvare le capacità artigianali dei fornitori. "È un costo" dice "ma ne vale la pena"

Con ciuffo ribelle e modi British, Patrizio di Marco guida il più grande gruppo italiano del lusso, Gucci. Quando parla, misura le parole e i gesti e cerca di non scomporsi neanche se gli cade l’occhio sulle intollerabili calzature del suo intervistatore, vecchie scarpe scamosciate marroni che profanano il tempio della pelletteria dove tutto dev’essere nuovo, perfetto e rigorosamente black.

Di Marco ha appena presentato al suo azionista, la holding francese Ppr della famiglia Pinault, un 2012 con quasi 3,7 miliardi di euro di giro d’affari di puro made in Italy, con margini superiori al 30 per cento, malgrado il periodo sia così difficile, con centinaia di aziende in crisi e migliaia di posti di lavoro a rischio. Anche dietro il denaro e il glamour del colosso fiorentino ci sono centinaia di fornitori e subfornitori che devono fare i conti con una congiuntura negativa e, soprattutto, con la mancanza di credito da parte delle banche. Di Marco ne è perfettamente consapevole e per questo vuole moltiplicare l’impegno, suo e dell’azienda che guida, per mantenere sano e rigoglioso quello straordinario tessuto artigianal-imprenditoriale in buona parte fiorentino e toscano, grazie al quale il marchio della doppia G (ma anche molti altri big del lusso) può vantare una crescita a doppia cifra su tutti i mercati mondiali. «Io non sono un integralista del made in Italy, ma molto di più. Io sono un talebano» dice commentando le altalenanti vicende della legislazione europea in materia di etichettatura. «Capisco che si comprino all’estero le materie prime, però il made in Italy è e deve essere solo quello al 100 per cento davvero prodotto e lavorato nel nostro Paese».

Come quello che firmate voi?
Certo, abbiamo fatto del made in Italy un cavallo di battaglia. Il marchio della doppia G, che in passato ha attraversato sconvolgimenti di varia natura, oggi è al secondo posto nel mondo del lusso ed è made in Italy come nessuno. Ci sono esperienze accumulate nel tempo che non sono trasferibili e io volevo che emergesse il valore dell’artigianalità. Il nostro indotto è fatto di 750 fornitori di primo livello e oltre 1.500 subfornitori. In totale, oltre 45 mila addetti. Tutti in Italia.

Il tema è diventato improvvisamente attuale. Molti grandi nomi della moda, nelle ultime settimane, hanno speso parole di elogio per l’unicità dei nostri produttori, lanciando l’allarme per una crisi che sta mettendo in ginocchio molti di loro.
Noi ci siamo impegnati in vario modo, con grande attenzione, preparandoci con cura e prendendoci il tempo necessario. Se più aziende avessero preso iniziative simili, la situazione adesso sarebbe migliore. E sarebbe naturalmente auspicabile che pure le istituzioni, soprattutto le istituzioni, facessero la loro parte. Ma bisogna stare attenti, il made in Italy non è mai uno slogan, è una missione.

Allora lasciamo da parte gli slogan degli altri e passiamo ai fatti vostri…
L’ultima nostra iniziativa è stata presa assieme alla Banca Cr Firenze, gruppo Intesa Sanpaolo, per favorire l’accesso al credito da parte delle imprese della nostra filiera. E non solo chi lavora in esclusiva per Gucci: ne possono beneficiare anche imprese che producono per i nostri concorrenti.

Di che cosa si tratta?
Mettiamo a disposizione della banca un nostro rating del fornitore sulla base di vari parametri, dall’affidabilità alla qualità, dalla capacità di rispettare gli standard fissati nel contratto di filiera all’appartenenza a un indotto produttivo di rilievo. Aiutiamo così la banca a capire quanto sia affidabile il loro cliente. Con effetti importanti sul costo del denaro e sulla tempistica delle operazioni.

Solo Gucci lo fa?
Ci sono stati annunci similari, ma non c’è niente di concreto, mentre noi abbiamo lavorato oltre un anno su questo. Non sono cose che si improvvisano.

Poi che altro?
La sostenibilità e la responsabilità sociale, la tracciabilità dei materiali, la certificazione della filiera, la creazione delle reti d’impresa. Abbiamo sette aziende che sono capofila di altre 77.

Dica la verità: i vostri fornitori dopo quanti giorni vengono pagati?
Paghiamo anticipatamente, se è necessario. L’abbiamo fatto per esempio anche quando, subito dopo la crisi del 2008-2009, alcune imprese pensavano di delocalizzare. Ci siamo sempre impegnati nel supporto finanziario dei nostri fornitori.

Tutto questo avrà un costo.
Certo che ce l’ha. Non sono iniziative benefiche, si prendono se si ritiene importante pensare al mondo che sarà. Le fai soltanto se ci credi.

Però all’azionista piace tanto avere un dividendo corposo...
Ho il loro appoggio. Ripeto, c’è una serie di oneri che impattano sulla profittabilità, ma sono iniziative che ho preso senza considerazioni economiche. D’altra parte il rapporto tra il costo del lavoro in Italia e alcuni paesi del Sud-Est asiatico è di dieci a uno, è ovvio che rimanere strettamente ancorati al nostro territorio ha un costo, però ne vale la pena. Noi abbiamo dimostrato di essere profittevoli puntando sull’efficienza della «supply chain» e mettendo l’enfasi sulla qualità dei prodotti.

A proposito di Asia: da laggiù arrivano container pieni zeppi di prodotti contraffatti. E anche svariati produttori italiani, per la verità, ci mettono un certo impegno.
La contraffazione è un’attività criminale a tutti gli effetti e i falsi Gucci arrivano soprattutto dall’Asia. Ci sono anche dei produttori italiani, non lo nego, ma i nostri fornitori sono seri. E poi noi abbiamo un’attività di controllo importante. Purtroppo alcuni artigiani pensano che sia meglio prestarsi ad attività criminali.

Qual è il suo giudizio delle misure che nel corso degli anni sono state prese in Italia per combattere il fenomeno della contraffazione?
Io amo molto il mio Paese e credo davvero di averlo dimostrato con i fatti. Tuttavia ci sono alcuni campi in cui siamo rimasti all’età della pietra.

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Martino Cavalli