Draghi apre i rubinetti ma il cavallo non beve
Economia

Draghi apre i rubinetti ma il cavallo non beve

Mario Draghi non delude, anche se si mostra sempre più deluso perché l’economia non parte e le banche non fanno il loro mestiere, convogliando verso famiglie e imprese la moneta che la Bce fornisce loro. Deluso, come ha ammesso in conferenza …Leggi tutto

Mario Draghi non delude, anche se si mostra sempre più deluso perché l’economia non parte e le banche non fanno il loro mestiere, convogliando verso famiglie e imprese la moneta che la Bce fornisce loro. Deluso, come ha ammesso in conferenza stampa, ma non piegato. Anzi, è deciso ad andare avanti. Fin dove? Non sta già toccando il fondo? Il taglio di un quarto di punto deciso dal consiglio della Bce a Bratislava porta il tasso di riferimento allo 0,5%, minimo storico e dimostra che ormai siamo arrivati al pavimento. Certo, c’è sempre il tasso negativo e Draghi ha detto che lui e i suoi 23 colleghi non hanno preclusioni, soprattutto se la crescita resta sotto zero nell’Eurolandia e l’inflazione continua a scendere. Ma è chiaro che siamo agli sgoccioli. Ciò vuol dire che la politica monetaria ortodossa è stata utilizzata al massimo.

La Bce ha deciso anche di proseguire nella sua politica espansiva: le operazioni di rifinanziamento illimitato continueranno anche nel 2014. E’ la versione europea del quantitative easing americano; qui la moneta non cade dall’elicottero (una frase di Milton Friedman ricordata da Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve), ma deve passare attraverso il canale bancario perché l’Europa non ha un mercato dei capitali grande e strutturato come quello americano. L’Europa è totalmente in mano alle banche. Le quali, però, tengono tutta questa moneta in cassaforte e non la prestano perché non si fidano. Né di loro stesse, cioè della solidità del sistema creditizio, né della economia nel suo insieme. Ciò valga da riflessione per chi continua a vantare la superiorità del modello europeo.

Anche negli Stati Uniti si discute sui limiti della politica monetaria, cioè se ci sia ormai troppa liquidità nel sistema, ma la moneta stampata dalla Federal Reserve ha messo in modo la domanda, la produzione, l’occupazione, il mercato immobiliare. Non abbastanza, non come servirebbe. Tuttavia gli Usa crescono ininterrottamente dal 2010. L’Eurolandia è in recessione (-0,6% l’ultimo dato) e non si è mai ripresa davvero dopo lo choc finanziario del 2008. Dunque, c’è limite e limite. E quello europeo è più ristretto di quello americano.

Draghi si è detto “frustrato” da una situazione che assomiglia esattamente alla trappola della liquidità descritta da John Maynard Keynes. Come si diceva un tempo, il cavallo ha davanti a sé una sorgente gorgogliante d’acqua fresca, eppure non beve. Anche nel board della Bce si sono sentiti dubbi sempre più forti sull’ulteriore efficacia di una lotta alla crisi esclusivamente via monetaria. A questo punto è chiaro che il bastone della staffetta deve passare alla politica fiscale.

La frustrazione di Draghi, dunque, non riguarda solo il comportamento delle banche, bensì anche quello dei governi. Rigore e riforme sono condizioni necessarie, ma non sufficienti. L’austerità ovunque e allo stesso tempo non funziona, anzi è perniciosa. Se i paesi che hanno condizioni migliori non allentano le redini per dare tempo e spazio di manovra ai paesi in deficit, non sarà mai possibile uscire dalla palude. Semplice buon senso applicato alla politica economica in forma di teoria del fine tuning. Eppure il senso comune, cioè l’obbedienza a una ortodossia dogmatica, sfida persino il buon senso.

Angela Merkel non ha aumentato la domanda interna (in particolare i salari) per non perdere voti a destra (tanto meno lo farà ora che è incalzata dagli euroscettici di Alternative), ma anche per difendere gli interessi dei grandi Konzern per i quali il mercato ormai è in Oriente dove la concorrenza si gioca sì sulla qualità del made in Germany, ma anche sui costi. Il flusso in entrata garantito dalla sopravvalutazione dell’euro, ha favorito gli investimenti e messo a disposizione una gran quantità di capitale. Moneta forte e salario debole è la ricetta mercantilista. Contro la quale Draghi non può fare nulla. Anche perché ha il “nemico” in casa.

Le cose non cambieranno fino alle elezioni di settembre. E dopo? Forse una vera recessione anche in Germania e una “non vittoria” all’italiana potranno indurre a formare un’altra Grosse Koalition con all’ordine del giorno un cambiamento della politica economica, tenendo fuori gli anti-euro di destra e di estrema sinistra. Forse. Per il governo Letta sarebbe lo scenario ottimale. Ma allo stato dei fatti sembra solo wishful thinking, in italiano un pio desiderio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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