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Perché Trump vincerà ancora

Al di là delle polemiche e dei (presunti) scandali i risultati economici di Donald Trump sono innegabili e conteranno alle elezioni presidenziali 2020

«La grande bufala della collusione con la Russia è finita, è morta. I democratici dovrebbero chiedere scusa al popolo americano». È da Grand Rapids, in Michigan, che Donald Trump lancia insieme al popolo dei colletti blu la sua corsa alla rielezione. Qui tenne il suo ultimo comizio prima del trionfo del 2016, e qui, in perfetto stile Trump, riparte con il suo Make America Great Again, sparando a zero contro gli avversari, mentre la folla lo incita al grido «Usa, Usa».

Dopo due anni sulla graticola fatti di scandali, polemiche e divisioni, ma anche successi spesso ignorati nel nome di uno spietato confronto politico, le nubi del Russiagate sono spazzate via, e il 45esimo presidente americano è più agguerrito che mai. Dal suo insediamento, nel gennaio 2017, il tycoon è stato più volte dato dai detrattori come sull’orlo del baratro, con lo spettro dell’impeachment che sempre più minaccioso sembrava incombere su Pennsylvania Avenue.

Il giro di boa dei primi 24 mesi alla guida degli Stati Uniti lo ha compiuto in trincea durante lo «shutdown» (la paralisi della macchina amministrativa federale) più lungo della storia del Paese, a causa del braccio di ferro sul finanziamento del muro al confine con il Messico. E oggi più che mai Trump è pronto a tutto per portare a termine l’agognata barriera, uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale. Tanto quanto la bandiera dell’America First, che lo ha portato sull’orlo della guerra commerciale con la Cina, ma gli ha anche permesso di conservare il sostegno granitico della sua base.

E il prossimo passo è una nuova ondata di dazi su 11 miliardi di dollari di beni europei in risposta agli aiuti dell’Ue ad Airbus, la rivale di Boeing. «La Ue si è approfittata degli Stati Uniti sul commercio per molti anni. Questo finirà presto» tuona Trump su Twitter. «Il Wto ha trovato che gli aiuti della Ue ad Airbus hanno avuto un impatto negativo sugli Stati Uniti». Si parla così di dazi su elicotteri, diversi tipi di formaggi e vino, alcuni marchi di motociclette. Nella lista preliminare ci sono anche pecorino, burro, prosecco, agrumi, olio d’oliva e marmellata.

Tuttavia, sono le grane nelle aule di giustizia che forse gli hanno dato più grattacapi, con la maxi-indagine sul Russiagate che lo ha perseguitato sin dal suo ingresso alla Casa Bianca. Un’inchiesta durata 22 mesi che ha gettato ombre sull’amministrazione e sul presidente, considerata dai suoi avversari la chiave per defenestrarlo dallo Studio Ovale prima della fine del mandato.

Un assedio giudiziario che sembrava essersi stretto sempre di più attorno al suo cerchio magico, passando dalle dimissioni del consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn per gli incontri taciuti con l’ambasciatore russo in Usa Sergey Kislyak, alla condanna per frode e altri reati di Paul Manafort, ex capo della sua campagna elettorale, sino all’arresto dell’ex consigliere e amico Roger Stone per aver contattato, dietro richiesta di alcuni responsabili della campagna, il sito WikiLeaks ottenendo le email compromettenti su Hillary Clinton trafugate al partito democratico.
Le conclusioni del procuratore speciale Robert Mueller, che hanno scagionato il presidente da ogni accusa di collusione fra la sua campagna e il governo di Mosca nelle azioni di interferenza a Usa 2016, hanno però gelato gli oppositori di The Donald. E il verdetto, più sfumato per quanto riguarda il reato di ostruzione della giustizia - afferma che non ha commesso un crimine, ma non lo esonera - potrebbe diventare un’arma decisiva per i tentativi del Commander in Chief di proporsi come una vittima della caccia alla streghe figlia del fanatismo di media e oppositori.

I democratici non sono intenzionati a mollare, vogliono la pubblicazione dell’intero dossier, e il New York Times sostiene che secondo alcuni membri della procura speciale guidata da Mueller, il rapporto è molto più compromettente per il presidente di quanto non sia emerso dalla lettera del ministro della Giustizia William Barr. «È un giornale di fake news» ribatte Trump. D’altronde, tra lui e i maggiori media americani, New York Times e Cnn in testa, è in corso una guerra senza quartiere iniziata ancora prima della sua elezione. «Il sommario di Barr del rapporto ha diminuito le possibilità di impeachment, ma rimane possibile» sottolinea invece con Panorama Allan Jay Lichtman, professore all’American University di Washington. «Non abbiamo ancora visto il dossier completo di Mueller o i risultati delle altre indagini in corso a New York o a Washington».

L’esperto aggiunge che «i dem hanno un dovere costituzionale da esercitare nella supervisione dell’esecutivo e non possono abbandonare l’indagine senza approfondire possibili gravi errori compiuti dal presidente». I quasi due anni di indagini e svariati milioni di dollari spesi, invece di mettere in ginocchio Trump rischiano di rappresentare un assist per la sua riconferma nel 2020, e per gli avversari un clamoroso autogol. Secondo il sito FiveThirtyEight, che si basa sui dati di tutti i sondaggi disponibili pubblicamente, il tasso di approvazione dell’inquilino della Casa Bianca non ha registrato grandi variazioni dalle conclusioni del dossier, passando al 42,1 per cento dal 41,9 del giorno prima della pubblicazione. Gli analisti, tuttavia, invitano a considerare con cautela le proiezioni. E non bisogna dimenticare il flop nel 2016, quando Trump veniva dato per spacciato contro la candidata democratica Hillary Clinton, di cui nessuno aveva predetto la débâcle. Peraltro dalla sua, Trump ha i numeri, soprattutto quelli sull’economia.

Nei suoi due anni sono stati creati 3,8 milioni di nuovi posti di lavoro con un tasso di disoccupazione saldamente ancorato sotto il 4 per cento. Il tutto sostenuto dalla crescita generale del Paese che nel 2018 ha marciato appena sotto il 3 per cento, l’indicatore più alto da 13 anni.

Dati con cui il presidente tiene testa ai moniti di una imminente recessione provenienti da più parti, grazie anche alla ripresa di tonicità di Wall Street dopo i periodi in altalena condizionati da «correzioni» dei mercati finanziari e volatilità spinta. L’inquilino della Casa Bianca tuttavia non si accontenta, e chiede alla Federal reserve di tagliare i tassi, accantonare il piano di riduzione del bilancio e valutare un nuovo round di quantitative easing, la manovra di politica monetaria a sostegno della crescita, perché se lo facesse, l’economia americana «sarebbe un razzo».

Ma i numeri dell’attuale amministrazione Usa sono anche quelli di un eccezionale turnover: secondo le stime di Brookings Institution, tra i principali consiglieri di Trump (il cosiddetto «team A», che non comprende i membri del gabinetto), la percentuale aggiornata al 25 marzo è del 66 per cento, mentre 14 sono i membri del gabinetto che sono stati licenziati o hanno dato le dimissioni. L’ultima, in ordine di tempo, è stata il segretario alla Sicurezza interna Kirstjen Nielsen, uno dei pochi ministri donna del governo, divenuta il volto della controversa politica del presidente americano sull’immigrazione. Silurata come ormai di consueto con un tweet. Prima di lei hanno detto addio all’amministrazione il capo di gabinetto John Kelly, il segretario alla Difesa Jim Mattis, l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley, il ministro della Giustizia Jeff Sessions, quello dell’Ambiente Scott Pruitt, il consigliere per la Sicurezza nazionale, H.R. McMaster, la direttrice della comunicazione Hope Hicks, il consigliere economico della Casa Bianca Gary Cohn. E ancora il segretario di Stato, Rex Tillerson, il ministro della Salute Tom Price, il capo di gabinetto Reince Preibus, il capo stratega Steve Bannon e il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn...

Si attendono nuovi tweet presidenziali di congedo.
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