Franceschini
PAOLO GARGINI / Imagoeconomica
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Direttori dei musei, il concorso è stata una buona idea

Finalmente si è scelto in base alla capacità e non solo alla nazionalità. Contro la burocrazia dei beni culturali che ha affossato le nostre meraviglie

Questa volta parleremo bene del governo. Nessun timore: non è l’effetto di un colpo di calore estivo, né abbiamo venduto l’anima al Diavolo (essendo noi stessi diavoli, non ci è consentito). Naturalmente per difendere il governo abbiamo scelto uno degli argomenti meno popolari: la nomina dei nuovi direttori dei più importanti Musei italiani. Su venti, sette sono stranieri, scelti attraverso un bando, e questo ha sollevato roventi polemiche, da parte delle opposizioni, in nome dell’italianità.  Dalla Lega ai Grillini, sono tutti indignati: affidare agli stranieri i musei italiani sarebbe quasi una cessione di sovranità.

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In realtà, il tema non rovina certo le vacanze alla gran parte dei connazionali: è difficile immaginare, sotto gli ombrelloni sulle spiagge appassionate discussioni su questo argomento, quando domenica riparte il campionato di calcio. Eppure è un tema importante, se è vero che l’Italia ospita un patrimonio artistico senza pari al mondo, e che tale patrimonio sarebbe una risposa preziosa per l’economia nazionale, se venisse valorizzato adeguatamente.

Il “marchio Italia” nel mondo si basa fondamentalmente su questo: un’idea di bellezza e di stile declinata dei diversi aspetti, che vanno dall’arte ai paesaggi, dalla cultura alla musica, dal design alla gastronomia. Uno straniero quando guarda all’Italia, se non pensa alla mafia, pensa a questo.

In un paese normale questo patrimonio verrebbe tutelato e valorizzato al massimo, per attirare visitatori e risorse, ma anche perché è parte fondante della nostra identità di nazione (se esiste) e dei singoli territori.
Su questi elementari concetti sono d’accordo tutti, tranne una ristretta ma potente categoria: la burocrazia dei beni culturali, che – per spocchia autoreferenziale, per deviazione ideologica o per pigrizia burocratica (spesso un mix delle tre cose), considera volgare, scomodo, oltraggioso per la cultura trasformare i musei e i luoghi d’arte in qualcosa di accogliente, di funzionale e quindi di redditizio.

I risultati sono tristemente noti: musei chiusi in giorni e ad orari impossibili, collezioni relegate negli scantinati, interi settori inagibili per lunghi periodi, bookshop e punti ristoro inesistenti o infrequentabili, spazi espositivi male allestiti e male illuminati, spiegazioni carenti o monolingue, personale scadente e demotivato ecc.

Basta mettere il naso fuori dalle frontiere domestiche per vedere come un patrimonio decisamente meno ricco viene sfruttato e valorizzato, spiegato e reso fruibile anche ai non specialisti. Dunque, ben venga una boccata d’aria fresca nel polveroso mondo dei musei italiani. Ben venga un concorso attraverso il quale sono stati scelti i direttori anche al di fuori della solita burocrazia ministeriale. Ben venga l’esperienza di stranieri e di italiani che fin qui hanno lavorato all’estero.

Ben venga se mette in discussione il potere di una delle burocrazie più ottuse e più presuntuose della pubblica amministrazione.

Naturalmente non è il caso di entusiasmarsi troppo: non tutti i curricula dei prescelti sono altrettanto convincenti, c’è chi ha fatto esperienza nei migliori musei del mondo e chi dovrà dimostrare quello che sa fare. Alcune scelte sembrano avere un’impronta politica: il Direttore degli Uffizi è stato sostituito dopo aver criticato apertamente il Governo Renzi, e per l’ego del premier – proprio nella sua città – questo è intollerabile.

Il fatto che fra i prescelti ci sia un perfetto equilibrio fra donne e uomini, dieci e dieci, sembra ispirato più alla volontà di essere “politicamente corretti” che ad un’effettiva valutazione meritocratica.

Vedremo all’opera i nuovi direttori, cosa sapranno e cosa potranno fare. Ma intanto si è affermato un principio: si sceglie in base alla capacità, non alla nazionalità, all’appartenenza o all’anzianità di servizio. Questo è un piccolo passo avanti sulla strada di un sistema più liberale.

Nota bene. Tutto questo non cambia affatto il nostro giudizio su Dario Franceschini, uno dei ministri fin qui più insignificanti di un governo che già non brilla per individualità. Franceschini è uno scaltro superstite della vecchia politica, nonostante l’età relativamente giovane. Ha i peggiori difetti della sinistra democristiana dalla quale proviene, si crede una Rosy Bindi senza averne né la verve né la cultura – e per la verità neanche l’aspetto. Abile nelle manovre di palazzo, si è trovato a sorpresa a fare il segretario del PD quasi per caso, e si è illuso di esserlo sul serio. In quella veste ha fatto tanti danni da essere detestato dai suoi più che dagli avversari. Cacciato da quel ruolo con ignominia, sembrava destinato all’oblio, ma ha avuto la scaltrezza di schierarsi fra i primi con Renzi, il quale lo ha ripagato lasciandogli lo strapuntino dei Beni Culturali, il meno ambito (purtroppo) dei ministeri, perché quello con il minor potere di spesa. Qui Dario ha navigato finora in silenzio, e pareva destinato a passare, come la quasi totalità dei suoi predecessori, senza lasciare traccia alcuna. A quanto pare, invece, una traccia la lascerà. E non delle peggiori.

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Serenus Zeitblom