Onu
(Ansa)
Dal Mondo

La guerra in Ucraina dimostra che l'Onu va cambiato, così...

L'assemblea Generale sull'invasione russa non ha portato a nulla, dimostrato l'impotenza di un organismo che dev'essere rinnovato per ridargli prestigio e dignità

New York, Assemblea generale dell’Onu. Durante il tanto atteso Consiglio di Sicurezza il presidente ucraino Volodymyr Zelensky illustra i dettagli del piano di pace di Kiev. E mentre infierisce come da copione su Mosca, infilza il consesso delle Nazioni con un’osservazione all’apparenza banale, ma anzitutto vera: «Servono soluzioni vere, non compromessi. La presenza russa nel Consiglio di sicurezza è illegittima e frena iniziative di pace: il potere di veto in mano all'aggressore è quello che ha spinto l'Onu in questa situazione di stallo». E ancora: «In caso di atrocità di massa» riflette di fronte all’assiste internazionale «il potere di veto dovrebbe essere sospeso e l’Assemblea Generale Onu dovrebbe avere il potere di superare il veto».

Il punto è che Zelensky per una volta non ha riproposto soltanto la sequela di richieste al «mondo libero» per fermare le atrocità della Russia sul popolo ucraino. Ha anche riaffermato una verità che troppe volte fingiamo di non voler vedere, e cioè che «è impossibile fermare la guerra perché tutte le azioni hanno il veto dell’aggressore». Ed è la pura verità. Il sistema di voto del Consiglio di sicurezza Onu e le articolazioni di legge sulle Risoluzioni assembleari non hanno un futuro, semplicemente perché non hanno alcuna efficacia.

Il presidente ucraino nell’occasione ha anche chiesto che l’Assemblea generale, oltre a toglierle il potere di veto, destituisca Mosca dal Consiglio. Da notare che, mentre lo faceva, l’ambasciatore russo all’Onu, Vasily Nebenzya, guardava il suo telefonino per gran parte dell’intervento, neanche fossimo al liceo. Con Zelensky che, per ripicca, lasciava l’aula del Consiglio di sicurezza poco prima del discorso del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov.

La Russia in quel momento aveva già dato il via alle polemiche, incalzando il premier albanese Edi Rama (presidente di turno del Consiglio) sulle questioni procedurali e contestando la decisione di far parlare per primo il presidente Zelensky anziché i quindici membri come da protocollo.

Viste da lontano, simili querelle sembrano aspetti di poco conto, al contrario illustrano fin troppo bene il peso specifico dell’architettura delle Nazioni Unite, che ne inficia il funzionamento. Vale qui la pena ricordare che l’Onu si regge su due pilastri: l’Assemblea generale, dove siedono tutte le nazioni aderenti, e il Consiglio di Sicurezza, dove siedono soltanto 15 membri, 5 dei quali permanentemente. Mentre l’Assemblea disserta sui più svariati argomenti, il Consiglio di Sicurezza provvede - o meglio, dovrebbe provvedere - al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

Le regole d’ingaggio del Consiglio prevedono che ogni decisione messa al voto sia adottata solo nel caso in cui almeno 9 membri su 15 sono in accordo. Eccezion fatta per il diritto di veto che ciascuno dei 5 membri permanenti ha il diritto di apporre per bloccare qualsiasi risoluzione non condivida. Ne basta uno perché il voto sia respinto. Ora, considerato che i cinque membri permanenti sono Regno Unito, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti, si capisce l’inservibilità di questa organizzazione. Quante volte sono in accordo Stati Uniti e Russia? O Stati Uniti e Cina? Meno di una su cento.

Dunque, dobbiamo arrenderci al fatto che lo statuto è irriformabile? Che l’Onu è solo un «salotto buono» per attovagliare le diplomazie e, semmai, prendere tempo anziché decisioni? Con la fine della Guerra Fredda, la contrapposizione Usa-Russia avrebbe dovuto cessare di paralizzare il Consiglio di Sicurezza, e il nuovo ordine mondiale avrebbe potuto essere garantito meglio da un organismo che, negli anni, è invece divenuto un gigante amministrativo. A paralizzarne l’azione, infatti, non sono solo i veti incrociati delle grandi potenze, ma anche una burocrazia multinazionale inefficiente e strapagata, che non riesce a produrre neanche pallide risoluzioni per riportare la pace nelle aree di crisi.

Certo l’Onu gestisce non solo i conflitti, ma anche crisi legate alla fame nel mondo, alla gestione dei rifugiati, alla tutela dei bambini. E, in questo campo, i risultati si possono vedere alla luce del sole. Ma quanto ai conflitti?

Tutti concordano che in questo momento le Nazioni Unite hanno le mani legate sull’Ucraina, perché quel famoso diritto di veto in mano ai cinque membri permanenti, ne blocca ogni iniziativa. E se è facile dissertare sui motivi per cui il Consiglio spesso s’inceppa, meno facile è accettarne l’impotenza, come se una riforma di quest’organo non fosse possibile.

L’ultimo a provarci fu Kofi Annan, segretario Onu fino al 2006, ma da allora più nulla è stato fatto. Fu lui a gettare un primo sassolino nello stagno. Voleva creare una «commissione dei saggi» per studiare la riforma del Consiglio ed evitare lo stallo attuale. Ne scaturirono due importanti proposte, conosciute come «modello A» e «modello B»: entrambe prevedevano di portare a 24 i membri del Consiglio, in modo che fosse «ampiamente rappresentativo delle realtà del potere nel mondo di oggi», dando la precedenza dell’allargamento a quei Paesi che contribuiscono più degli altri alle attività dell’Onu «in termini finanziari, militari e diplomatici». Magari anche con l’Italia, visto che è il sesto Paese quanto a contributi verso l’Onu.

Il segretario propose anche di creare una definizione unanime di terrorismo - «Qualunque azione che mira a causare la morte o seri danni fisici a civili o non combattenti, con l’obiettivo di intimidire una popolazione o spingere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un atto» - e di definire con chiarezza i princìpi e le modalità d’ingaggio per il ricorso dell’uso alla forza; nonché di riformare il meccanismo di «peacekeeping», includendo anche l’Unione Europea come fosse un unico corpo.

Nessuno dopo di lui ha messo davvero mano alle riforme. Tantomeno a Palazzo di Vetro intendono tirare fuori dal cassetto la riforma Annan, che resta a prendere la polvere da quasi vent’anni. Perché? L’unica spiegazione è la priorità alla salvaguardia degli «interessi nazionali essenziali» dei membri permanenti.

Gli unici sforzi di correttivi allo Statuto Onu sono stati da pare francese: Parigi ha un progetto di riforma in base al quale i 5 membri permanenti non possono utilizzare il diritto di veto nelle decisioni relative a «genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra su vasta scala».

Mentre dal 2009, sull’onda degli stimoli di Kofi Annan, è iniziato il cosiddetto «Negoziato inter-governativo» sulla riforma del Consiglio di Sicurezza, cui partecipano tutti gli Stati Membri e che però è rimasto al punto di partenza da allora. Peccato, perché prevede, ad esempio un’espansione del Consiglio, per assicurare una più equa rappresentanza a tutti i 193 Stati Membri e per porre rimedio all’attuale sotto-rappresentazione regionale (in particolare, dell’Africa di Asia-Pacifico e dell’America Latina). Proprio come immaginava Annan.

Al suo interno agisce il gruppo Uniting for Consensus che però, come scrive in proposito anche il Ministero degli Esteri italiano, registra «diversità di vedute principalmente su due aspetti fondamentali: il meccanismo del veto e le categorie dei membri, ossia l’opportunità di istituire nuovi seggi permanenti (con o senza veto) oppure ampliare il Consiglio di Sicurezza. Le divisioni su tali temi sono la causa principale dello stallo del negoziato». Come volevasi dimostrare. Anzi peggio, perché l’Italia stessa è contraria a istituire nuovi seggi permanenti attribuiti a singole Nazioni. Se infatti «la condizione degli attuali 5 membri permanenti trova una spiegazione nelle particolari circostanze storiche della fine della seconda Guerra Mondiale», anche Roma ritiene che «non sarebbe opportuna oggi una riforma che desse vita a ulteriori, ingiustificate posizioni privilegiate in seno alla Comunità Internazionale, a detrimento degli interessi generali dell’intera membership onusiana».

Insomma, una riforma del Consiglio di Sicurezza non è seriamente all’ordine del giorno. Neanche se il segretario generale Antonio Guterres strepita: «O si avvia una riforma o è la rottura, le istituzioni rischiano di essere parte del problema»; e nemmeno se viene proposta da Joe Biden che, come Guterres, all’ultima Assemblea ha parlato di «riforme necessarie» del numero dei Paesi con potere di veto, ma solo perché intende diluire il potere di Mosca e Pechino e affondare il loro progetto comune di costituire un nuovo blocco geopolitico anti-occidentale (Brics). E ne ha ben donde, come evidenziato dalla rivista francese Le Grand Continent, visto che negli ultimi trent’anni Cina e Russia hanno raccolto la stragrande maggioranza dei consensi, mentre soltanto il 14% degli Stati ha votato con gli Usa.

Il che conferma come l’apparato delle Nazioni Unite, per quanto ancora funzionante e necessario alla diplomazia, sia un istituto obsoleto, già superato dalla realtà e importante più come palcoscenico che non come organo decisionale per le sorti del pianeta.

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Luciano Tirinnanzi