«Obamagate», l'ex presidente Usa nella bufera
(Ansa, Epa, Alex Brandon)
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«Obamagate», l'ex presidente Usa nella bufera

"Obamagate": così Donald Trump ha twittato domenica scorsa a caratteri cubitali. Una posizione forte, che entra a gamba tesa in un dibattito politico – quello americano – resosi particolarmente aspro negli ultimi giorni. L'attuale inquilino della Casa Bianca ritiene – e non certo da oggi – che Barack Obama abbia utilizzato impropriamente l'Fbi come strumento per cercare di bloccare la propria ascesa politica. In particolare, Trump sostiene da tempo che il suo predecessore sia stato il vero architetto dell'inchiesta Russiagate: inchiesta che – ricordiamolo – si era incaricata di appurare eventuali collusioni tra il comitato elettorale dello stesso Trump e il Cremlino.


Inchiesta che tuttavia si era conclusa l'anno scorso fondamentalmente in una bolla di sapone. Il rapporto del procuratore speciale, Robert Mueller, aveva infatti concluso che non vi fossero evidenze di collusione, aggiungendo inoltre di non poter provare al di là di ogni ragionevole dubbio l'accusa secondo cui l'attuale presidente avesse cercato di intralciare la giustizia. Questo epilogo aveva infiammato i sostenitori di Trump il quale, non a caso, aveva bollato l'intera inchiesta come una montatura, concentrandosi non soltanto sulle indagini di Mueller (iniziate a maggio 2017 e conclusesi nel marzo 2019) ma anche – e soprattutto – sulla prima fase dell'inchiesta, condotta dall'Fbi a partire dall'estate del 2016: la cosiddetta operazione Crossfire Hurricane, con cui il Bureau – all'epoca diretto da James Comey – aveva posto sotto indagine il comitato di Trump in piena campagna elettorale. Ed è proprio su questa fase che si sta focalizzando adesso la Casa Bianca: una fase in cui – sostiene l'attuale presidente – Obama avrebbe giocato un ruolo particolarmente controverso. Soprattutto alla luce degli ultimi sviluppi.

Giovedì scorso, il Dipartimento di Giustizia ha lasciato cadere le accuse contro il generale Mike Flynn. Si tratta del primo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, dimessosi il 13 febbraio del 2017, dopo che emersero voci sul fatto che non avesse chiarito appieno al vicepresidente americano, Mike Pence, i dettagli di alcuni colloqui con il diplomatico russo Sergej Kislyak: colloqui in cui si era discusso del delicato tema delle sanzioni americane contro Mosca. Tali conversazioni erano inoltre risultate al centro di un interrogatorio, a cui l'allora consigliere per la sicurezza nazionale era stato sottoposto proprio dall'Fbi il 24 gennaio del 2017. In quell'occasione, Flynn aveva negato di aver parlato di sanzioni: versione che tuttavia egli stesso cambiò nel dicembre successivo, dichiarandosi colpevole di aver mentito e dicendosi pronto a collaborare con Mueller (nominato procuratore speciale per il Russiagate sette mesi prima). Tutto questo, mentre nel gennaio del 2020 il generale ha chiesto di poter ritrattare quell'ammissione di colpevolezza. La vicenda ha quindi continuato a protrarsi sino alla decisione del Dipartimento di Giustizia di giovedì scorso. "Dopo un'analisi ponderata di tutti i fatti e le circostanze di questo caso, comprese le informazioni recentemente scoperte e divulgate", i funzionari del Dipartimento hanno concluso che l'interrogatorio a cui fu sottoposto Flynn dall'Fbi fosse "sconnesso e ingiustificato dall'indagine di controspionaggio dell'Fbi sul signor Flynn", aggiungendo che quell'interrogatorio fosse stato "condotto senza alcuna base investigativa legittima".

I democratici hanno prontamente accusato il ministro della Giustizia, William Barr, di aver politicizzato la faccenda e, non a caso, molti ne hanno chiesto a gran voce le dimissioni. Lo stesso Obama è intervenuto, parlando di violazione dello stato di diritto. In sostanza, la tesi dell'asinello è che Trump starebbe insabbiando prove e testimonianze potenzialmente scomode. Eppure va rilevato un elemento significativo. La mossa del Dipartimento di Giustizia è arrivata pochi giorni dopo la diffusione di materiale controverso: a fine aprile, sono infatti state diffuse quattro pagine di mail scambiate tra alcuni funzionari dell'Fbi, che si stavano preparando a interrogare Flynn quel "fatidico" 24 gennaio del 2017. Ebbene, in queste pagine sono presenti alcune annotazioni scritte a mano particolarmente controverse. In una di esse si legge: "Qual è l'obiettivo? Verità/ammissione o indurlo a mentire, così che possiamo incriminarlo o farlo licenziare?" La diffusione di questo materiale aveva già incendiato il dibattito politico negli scorsi giorni. I critici del presidente hanno parlato di consuete tecniche di interrogatorio, mentre per i repubblicani si trattava della prova che il Bureau stesse operando in base a motivazioni politiche. Non dimentichiamo d'altronde che, due anni fa, emerse che uno degli agenti che interrogò Flynn, Peter Strzok, avesse inviato nel 2016 un messaggio alla sua amante, in cui assicurava che avrebbe fatto di tutto pur di bloccare l'ascesa politica di Trump. Quello stesso Strzok che, quando il 4 gennaio 2017 l'Fbi dichiarò chiusa l'indagine su Flynn per assenza di "informazioni dispregiative", si attivò (con successo) per lasciarla aperta. La questione sarebbe comunque probabilmente rimasta in bilico se, negli ultimissimi giorni, la commissione Intelligence della Camera non avesse desecretato un'ingente mole di documenti: circa 6.000 pagine, contenenti soprattutto le trascrizioni delle audizioni che, tra il 2017 e il 2018, la commissione stessa aveva tenuto a porte chiuse, interrogando vari personaggi sulle origini dell'inchiesta Russiagate.

Ora, uno dei punti maggiormente interessanti che emerge da questo materiale risiede nel fatto che i principali funzionari dell'amministrazione Obama ascoltati hanno escluso di aver posseduto delle "evidenze empiriche" di una collusione tra il comitato di Trump e il Cremlino. L'ex Director of National Intelligence, James Clapper, ha dichiarato: "Non ho mai visto alcuna prova empirica diretta che la campagna di Trump o qualcuno in essa stesse complottando o cospirando con i russi per interferire nelle elezioni". "Questo non vuol dire che non ci fossero preoccupazioni riguardo alle prove che stavamo vedendo, prove aneddotiche... Ma non ricordo nessun caso in cui avevo prove dirette". Nello stesso modo si sono espressi l'ex ministro della Giustizia, Loretta Lynch, l'ex consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice, e l'ex ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Samantha Power. L'ex vice consigliere per la sicurezza nazionale, Ben Rhodes, ha invece dichiarato: "Ho visto indicazioni di un potenziale coordinamento, ma non ho visto, sapete, evidenze specifiche delle azioni della campagna di Trump". Senza poi dimenticare l'ex direttore ad interim dell'Fbi, Andrew McCabe, che – nel 2017 – fu interrogato sull'attendibilità del cosiddetto dossier Steel: quel dossier che – prima di essere screditato – aveva costituito la base dell'impianto accusatorio del Russiagate. "Non siamo stati in grado di provare l'accuratezza di tutte le informazioni [del dossier]", dichiarò McCabe. Gli fu dunque chiesto: "Non sai se è vero o no?" "E' corretto", rispose.

Insomma, se i vertici dell'amministrazione Obama, l'Fbi e la comunità di intelligence non disponevano di "evidenze empiriche" per giustificare un'indagine sulla collusione tra Trump e i russi, per quale ragione quell'indagine venne comunque condotta? Tanto più che, come abbiamo visto, lo stesso ministro della Giustizia di allora, Loretta Lynch, ha dichiarato di non aver avuto prove: un elemento ben strano, visto che – almeno teoricamente – il Bureau è sottoposto proprio al Dipartimento di Giustizia. Ed è qui che assume particolare interesse un ulteriore elemento. Secondo i nuovi documenti diffusi, l'allora viceministro della Giustizia, Sally Yates, riferì al team di Mueller – nell'agosto del 2017 – di aver appreso che l'Fbi stesse indagando su Flynn dal medesimo Obama e non dal direttore del Bureau, James Comey. Lei stessa, secondo le annotazioni degli investigatori, si sarebbe definita "sorpresa". Ne consegue che l'Fbi, aggirato il Dipartimento di Giustizia, abbia agito su diretto ordine dell'allora presidente democratico. Ma se, come abbiamo visto, le "evidenze empiriche" di una possibile collusione tra Trump e i russi non c'erano, su quali basi Obama avrebbe ordinato all'Fbi di operare in quella direzione? Alla luce di quanto visto, l'ipotesi secondo cui l'ex presidente americano potesse avere un movente politico non è così infondata. Ricordiamo, tra l'altro, che costui non fosse poi così estraneo a un uso spregiudicato del potere, come dimostrò per esempio Politico nel 2017 con la cosiddetta faccenda dell'Hezbollahgate. Certo, bisogna fare attenzione: anche se si dimostrasse in modo irrefutabile che Obama abbia diretto il Bureau con un chiaro intento politico, non è detto che ciò implicherebbe tecnicamente un reato. Senza poi trascurare che per i democratici l'Obamagate sia nulla più che una teoria complottista. Resta tuttavia il fatto che, lo scorso dicembre, Trump sia stato messo sotto impeachment con l'accusa di abuso di potere sulla questione ucraina: un'accusa fondata su testimonianze farraginose e, da un punto di vista tecnico, senza una valenza di carattere penale. Per quale oscura ragione quindi tacciare Trump di "abuso di potere" è "giustizia", mentre ipotizzare – con qualche solida evidenza – la medesima accusa contro Obama è "complottismo"? Attendiamo pazientemente che qualcuno ce lo spieghi.

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Stefano Graziosi