Ed ora tocca a quel razzista di John Wayne
(Leonardo Ortiz via Getty Images)
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Ed ora tocca a quel razzista di John Wayne

L'attore simbolo della storia dei film western boicottato perché razzista. L'ultimo obiettivo di una caccia al vero colpevole: Donald Trump

Damnatio memoriae su John Wayne. I democratici di Orange County (in California) hanno chiesto che il nome del locale aeroporto – attualmente intitolato all'attore – venga cambiato. In particolare, la risoluzione, approvata venerdì scorso, recita: "Il Partito Democratico di Orange County condanna le dichiarazioni razziste e intolleranti di John Wayne e chiede che il nome e i ritratti di John Wayne vengano rimossi dall'aeroporto di Orange County e chiede al Consiglio delle autorità di vigilanza di OC di ripristinare il suo nome originale: Aeroporto di Orange County". Al centro della polemica sono finite alcune dichiarazioni, rilasciate da Wayne nel corso di un'intervista a Playboy del 1971. "Credo nella supremazia bianca fino a quando i neri non vengono educati a un punto di responsabilità. Non credo nel dare autorità e posizioni di leadership e giudizio alle persone irresponsabili", disse, per poi aggiungere: "Non mi sento in colpa per il fatto che cinque o dieci generazioni fa queste persone erano schiave".

Insomma, come nel caso della statua di Montanelli, anche qui si applicano meccanicamente parametri di giudizio odierni a posizioni o comportamenti del passato, senza che il diretto interessato possa difendersi (The Duke è morto nel 1979). E, esattamente come nel caso di Montanelli, non si riesce a capire che il fatto che un personaggio possa essere stato celebrato con monumenti o intitolazioni non significa necessariamente encomiare questo stesso personaggio in senso assoluto, ma limitatamente ai meriti conseguiti nella sua attività professionale (giornalistica nel caso di Montanelli, attoriale in quello di Wayne). In realtà, c'è una questione forse ancora più profonda. Non è certo la prima volta che si invoca una damnatio memoriae nei confronti di The Duke. Ma, in questo caso, si riscontrano elementi di una certa significatività.

In primo luogo, la richiesta dei democratici di Orange County si inserisce nella scia iconoclasta che sta caratterizzando ormai da molte settimane svariate aree statunitensi: una scia iconoclasta che non si è fermata ai generali confederati ma che ha coinvolto anche monumenti dedicati a Cristoforo Colombo e – addirittura – protagonisti del fronte nordista: quel fronte, cioè, che nella Guerra di Secessione combatté contro i confederati. Dieci giorni fa, sempre in California (a San Francisco) alcuni manifestanti di Black Lives Matter hanno infatti abbattuto la statua di Ulysses Grant. Al di là dell'atto unilaterale e vandalico del distruggere un monumento pubblico, qualcuno magari sottolineerà che Grant abbia posseduto uno schiavo. Vero. Ma Grant, da militare, fu comandante in capo delle truppe dell'Unione e sconfisse le armate del generale Lee (le cui statue sono state a loro volta oggetto di atti vandalici). E sempre Grant, da presidente, represse duramente il Ku Klux Klan. Insomma – quando non si tratta di conclamata ignoranza – questo fanatismo iconoclasta non sembra capace di storicizzare né di distinguere tra dimensione privata e pubblica di un personaggio storico, arrogandosi il diritto di esprimere giudizi con fare manicheo, arbitrario e totalizzante, in virtù di pretese superiorità morali. Un discorso che potrebbe presto riguardare anche un altro presidente: che cosa si dirà infatti di Lyndon Johnson che, pur essendo stato il principale promotore del Civil Rights Act, nutriva sentimenti razzisti in privato?

In secondo luogo, l'attacco a The Duke cela un significato politico non indifferente. Perché, oltre all'attore, si scorge un bersaglio ben preciso: Donald Trump. E questo non tanto perché, nel 2016, la figlia dell'attore, Aissa, diede il proprio endorsement all'allora candidato repubblicano. Ma perché, più in profondità, Trump ha costruito la propria comunicazione politica, ricalcando assai spesso i crismi dell'epica western. Non soltanto ne ha sovente imitato le dinamiche (basti pensare alla sua predilezione per le battaglia in solitaria). Ma ha anche dato voce a un'America culturalmente sottorappresentata: l'America del Midwest e del Sud, che trova ben poco spazio nei media e che all'estero viene considerata assai spesso esclusivamente per i suoi tratti negativi. L'America del cinema western, che si riconosce cioè nei valori del cinema western, è oggi mediaticamente inesistente: sommersa dalle serie televisive politicamente corrette, che costituiscono oggi le uniche lenti con cui molti (soprattutto in Europa) credono di poter subitaneamente comprendere la complessità culturale e valoriale che attraversa gli Stati Uniti. La riproposizione, in fin dei conti, di un vecchio problema: quello di chi crede di conoscere la realtà d'oltreatlantico, limitandosi a prendere in considerazione New York e la California. Il western oggi rappresenta probabilmente uno degli ultimi residui culturali di un mondo che c'è e che vive, ma che si ritrova costantemente assediato. E' quindi in questo senso che Trump lo ha ripreso e cavalcato. Non è la pedissequa imitazione dell'eroe cinematografico a livello di comunicazione politica, ma – più in profondità – l'appello a un mondo dimenticato. Il modello western oggi si scontra con il modello Netflix. Ed è anche (e forse soprattutto) da questo duello culturale che passeranno le presidenziali del prossimo novembre

In terzo luogo, il recente accanimento nei confronti di Wayne punta ad attaccare un determinato sistema valoriale: un sistema di cui parte consistente del cinema western si fece portatore. Sotto questo aspetto, vale forse la pena ricordare che – nel 2018 – il regista Spike Lee mandò pubblicamente "a fare in culo" sia John Wayne che John Ford. Sottesa a quelle parole era una vulgata, ormai da tempo in circolazione, secondo cui il genere western fosse razzista e intollerante. Nulla di più infondato, soprattutto se guardiamo alla filmografia di Ford. Fu Ford il primo regista a scritturare un afroamericano per il ruolo da protagonista in un film western (Woody Strode ne I dannati e gli eroi del 1960) e sempre Ford in molti suoi lavori prese apertamente le difese dei pellirossa contro i bianchi (si pensi a Il massacro di Fort Apache del 1948 o a Il grande sentiero del 1964). Anche sulla Guerra di Secessione Ford, pur parteggiando esplicitamente per l'Unione, rifiutò di fornire interpretazioni dicotomiche di quell'evento, esplorandone la complessità e le ambiguità (Soldati a cavallo del 1959). Una delle sue opere recentemente più contestate è invece Sentieri selvaggi (del 1956), bollata da molti come razzista. Nuovamente purtroppo si tratta di ignoranza o malafede: perché quel film, che – nella sua crudezza – analizza come lo scontro tra comunità possa fondarsi sull'odio etnico, tende proprio a mostrare le conseguenze distruttive di quello stesso odio, auspicandone un superamento.

La battaglia contro il cinema western viene quindi a inserirsi dentro una più generale battaglia, mossa contro le radici storico-culturali degli Stati Uniti (e non solo). Radici che, sia chiaro, non sono sempre necessariamente positive. Ma non per questo vanno spazzate via con furore palingenetico. Era maggio 2017, quando l'ex segretario di Stato, Condoleezza Rice (afroamericana nata e cresciuta nell'Alabama degli anni '50), si disse contraria ad abbattere le statue dei confederati e dei proprietari di schiavi, dichiarando: "Voglio che guardiamo a quei nomi e riconosciamo quello che hanno fatto e poter dire ai nostri figli cosa hanno fatto, e che abbiano un senso della loro storia […] Quando inizi a cancellare la tua storia, a sanificare la tua storia per sentirti meglio, è una brutta cosa". Il punto è quindi l'attacco alla storia, per rendere i cittadini privi di identità, di consapevolezza, di conoscenza del proprio passato (sia positivo che negativo). L'assenza della storia rende l'essere umano manipolabile, perché – ignorando il dipanarsi degli eventi passati nella loro complessità – cristallizza il presente, considerandolo immutabile e necessario. L'essere umano diventa così una macchina da consumo, un prodotto in serie: massificato e tendente a replicare banalità identiche ammantate da grandi valori, indipendentemente dalla sua area di provenienza, dalla sua cultura, dalla sua formazione. Chi è che in America si sta opponendo oggi a tutto questo?

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Stefano Graziosi