Io che (non) ero Unabomber
2017, CORVA (PN) ITALY. ELVO ZORNITTA. © FABRIZIOGIRALDI
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Io che (non) ero Unabomber

Bombarolo per gli investigatori, mostro per i giornali e invece un ingegnere, ingiustamente, finito al centro della cronaca. La storia di Elvo Zornitta

«Da indagato, i giornalisti, iniziarono a “mostrificarmi” mentre da innocente preferirono dimenticarmi». Forse, anche loro, cominciarono a pentirsi. «Ma mai a scusarsi».

Elvo Zornitta dice di conservare gli articoli. «Ne ho archiviati 377. E per tutti ero Unabomber, ma la cosa peggiore è che per i più lo sono rimasto».

Le chiedono ancora delle forbicine? «Le famose Valex che in realtà non erano della Valex». La procura le sequestrò anche 48 involucri di ovetti Kinder, gli stessi che adoperava Unabomber. «E che invece io conservavo perché regali di mia figlia». In casa le trovarono le fialette alla vaniglia “Pan degli Angeli”. «Che occorrevano a mia moglie per fare le torte ma che secondo gli inquirenti, invece, servivano a impacchettare l’esplosivo». Gli investigatori analizzarono anche il “profilo” di sua moglie. «Non solo. La indagarono come coautrice degli attentati. Qualcuno ipotizzò che fosse stata lei a lasciare uno degli ordigni esplosi a Portogruaro. Non potevano sapere che mia moglie, in auto, è capace di perdersi a Portogruaro».

La moglie di Zornitta si chiama Maria Donata ed è maestra elementare, ma soprattutto è ancora innamorata di quello che chiama il «mio Elvo». A giugno hanno celebrato 25 anni di vita insieme. «E almeno in quest’occasione abbiamo fatto una grande festa». I coniugi Zornitta vivono ancora ad Azzano Decimo, in provincia di Pordenone, e anche la casa è la stessa, «la famosa villetta a un piano di colore giallo». Qui, nel 2004, cinque procure (Pordenone, Treviso, Udine, Trieste, Venezia), quattro unità di polizia scientifica (Ris, Ros, Sco, Uacv), oltre quaranta agenti (ce n’era pure uno dell’Fbi, Carlo John Rosati, di Quantico in Virginia, che appena arrivato in Italia venne rapinato all’aeroporto) credettero di aver individuato il “mostro” che mostro non era ma un ingegnere aeronautico, «cattolico», «amante del bricolage», «con la passione per i petardi».

Zornitta il 26 maggio del 2004 venne indagato e ritenuto responsabile di essere Unabomber, lo squinternato che dal 1994, ed era la sagra di Sacile, confezionava e lasciava ordigni lungo il Nord-Est, tra spiagge, cimiteri, chiese e supermercati. Gli attentati furono in totale 34 e si conclusero nel 2006. In quegli anni tutti cominciarono a vedere la bomba dove bomba non c’era. Giancarlo Buonocore, che è stato sostituto procuratore di Udine, e tra i primi a occuparsi del caso, ha raccontato a Marco Bariletti e Simone Zucchini “Unabomber” (Edizioni Nutrimenti) che la nitroglicerina fece le sue vittime ma che la psicosi ne produsse molte altre. Il procuratore ricorda che in tribunale era «un viavai di gente e ognuno con la sua verità». Ci fu perfino chi si presentò così: «Io so chi è Unabomber. Credetemi è lo sceriffo Wyatt Earp del film “O.K Corrall” che si è reincarnato».

Zornitta dice che a deviare la sua vita è stata proprio una di queste malate verità e forse piccole, ma fatali, antipatie. A segnalare il nome di Zornitta agli investigatori fu un ex collega con cui aveva avuto divergenze. «Ma si trattava di un episodio accaduto quasi vent’anni fa e certo non potevo credere che bastasse a stravolgere una vita». Voleva vendicarsi? «Neppure io immaginavo quanto potesse riuscirci». Il collega era un dipendente della Oto Melara di La Spezia, un’azienda controllata dalla Finmeccanica che si occupa di difesa, dove Zornitta ha lavorato fino al 1986 come ingegnere con compiti di ricerca e sviluppo: «Di sicuro non assemblavo esplosivi e meno che mai ne producevo». I sospettati delle procure in quegli anni furono più di duemila.

La categoria più analizzata fu quella degli ingegneri, poi quella dei chimici da laboratorio e non mancò naturalmente la pista del terrorismo “ecologista” e “anarchico” che sempre, in Italia, maneggia esplosivi e amministra ossessioni. Il 4 agosto del 1996 uno degli attentati, la deflagrazione di un tubo metallico sulla spiaggia di Lignano Sabbiadoro, fu infatti rivendicato con una telefonata all’Ansa dal gruppo “17 Novembre”, una cerchia di sbandati di estrema sinistra. Era una pista falsa. Si provò a setacciare anche l’ambiente militare con la convinzione che si nascondesse nel disagio del reduce dal conflitto nei Balcani il volto dell’autentico bombarolo. «E invece poi arrivarono a me. Anzi, prima arrivò la televisione e poi la magistratura». Zornitta scoprì di essere ufficialmente pedinato e indagato una domenica mattina, («era il 26 agosto del 2005»), per mezzo di una troupe televisiva che stazionava ad Azzano Decimo e non si sa se per non perdere l’arresto o se per molestare qualche sventurato.

«Mentre uscivo da messa una giornalista sbucò da un furgone. Ancora la ricordo. Aveva un microfono in mano e dietro di lei c’era un operatore con la telecamera». Cosa le chiese? «In realtà non mi fece domande ma si limitò ad assicurarmi che in procura erano state trovate le prove contro di me. Insomma, mi disse che ero spacciato». L’abitazione di Zornitta venne perquisita quattro volte. «Sempre di mattina e durante la perquisizione bisognava rimanere in pigiama. Non ho mai vista una, di queste perquisizioni, fatta con dovizia. Nelle perquisizioni successive sequestravano gli oggetti che si erano dimenticati in quella precedente». Da allora, Zornitta, fu colpevole di fede («cattolico nel mio caso divenne un’aggravante») e le metafore furono spericolate come le congetture: «Belva oscena e ripugnante», «personaggio ambiguo e sconcertante».

I giornalisti gli alterarono naturalmente gli occhi che sono sempre la spia del criminale e la parte del corpo più facile da storpiare. Quelli di Zornitta divennero «gelidi», «di ghiaccio», e le sue calze erano poi «bianche» mentre le sigarette erano addirittura delle «Multifilter». La moglie Maria Donata crede che queste siano state le frasi più crudeli ma che forse più guasti hanno provocato le induzioni strampalate che meriterebbero, oggi più di ieri, di essere esaminate. «Alcuni, i più audaci, provarono a dimostrare la colpevolezza partendo dalla libreria di mio marito. Scrissero che contenesse dei volumi compromettenti». Quali erano? «”Psicopatologia della vita quotidiana” di Sigmund Freud. E non era neppure suo ma bensì mio».

La colpevolezza di Zornitta venne fatta risalire a delle forbici di colore rosso che oggi può mostrare. Sono strumenti comuni. «E per provarlo chiamai la Valex». Perché? «Volevo chiedere quante di queste forbici producesse e dunque spiegare che nello stesso lotto potevano esserci sia quelle del criminale come quelle di un innocente». Cosa gli hanno risposto? «Che ne fabbricavano 20 mila ogni anno». Le procura di Treviso e di Venezia, insieme all’ex responsabile del Laboratorio Indagini Criminalistiche di Venezia, Ezio Zernar, individuarono in quelle forbici le prove che avrebbero accusato e mandato a processo Zornitta. «Erano sicuri di dimostrare che le forbici che mi avevano sequestrato avessero lasciato le stesse striature ritrovate sul lamierino scoperto a Sant’Agnese di Portogruaro il 2 aprile del 2004». A Zornitta sono state prese le impronte digitali e tracce del suo dna. «Ed entrarono in possesso perfino di un mio capello. Per anni ho avuto paura non solo degli investigatori che tentavano di incriminarmi ma anche dei passanti che credevo volessero incastrarmi. È vero che ho ripreso a fumare ma nessuno sapeva che, per paura, nascondevo i mozziconi nelle tasche dei pantaloni. La giustizia si stava sbagliando ma la mania, e quindi la malattia, mi stava prendendo».

A casa di Zornitta la procura posizionò le telecamere, («di cui tutti ci eravamo accorti»), installò delle cimici, («che subito avevo trovato»), e pure un gps, («per seguire i miei spostamenti»). «E naturalmente mi vennero sequestrati tutti gli attrezzi che trovarono nel garage. Pinze, cavi elettrici». Da casa Zornitta portarono via anche le penne. «Che mia figlia, a quel tempo aveva otto anni, smontava. Per loro erano prove di reato. Ma che si stesse toccando l’assurdo lo compresi quando, durante una perquisizione, cominciarono a sequestrami altro materiale con l’illogica motivazione che “poteva servirmi per nuovi attentati”. Avevano stabilito che Unabomber fossi in maniera irrefutabile io».

Da quando Zornitta venne indagato esplosero altre cinque bombe. «Ed era chiaro, a quel punto, che non potevo più essere il responsabile. Ma per ribadire la mia colpevolezza, gli inquirenti, arrivarono a teorizzare la loro scarsa vigilanza. In pratica, sostenevano che i loro pedinamenti non fossero stati sufficienti a impedirmi di entrare in azione». I pubblici ministeri di Trieste e Venezia, che nel frattempo per volere del ministro degli Interni Beppe Pisanu furono riuniti in una “super procura” e che avevano effettuato una “super perizia” commissionata a un “super pool” di esperti, sostennero che a carico di Zornitta ci fossero «elementi formidabili». «E dato che erano formidabili gli chiesi di arrestarmi, di sottopormi alla macchina della verità. Non lo fecero».

Zornitta iniziò a essere difeso da un avvocato di Pordenone. Si chiama Paolo Dall’Agnolo. «Anche lui si accorse che le procure che indagavano su di me erano troppe e lui solamente uno». Il padre di Zornitta, «un bancario che oggi ha novant’anni», si rivolse a Maurizio Paniz, legale di Belluno, parlamentare del Pdl. La difesa divenne dunque a due. «Fu Paniz che mi spinse a cercare i periti, a organizzare una controperizia che smontasse quella dei pubblici ministeri e provasse così la mia innocenza». Zornitta che da ingegnere ha girato il mondo («ho frequentato anche un corso all’École normale Supérieure e studiato in America») racconta che chiese aiuto a Scotland Yard e al Cern di Ginevra per capovolgere le accuse. «Ho viaggiato ogni domenica alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarmi ad analizzare i metalli».

I periti, che invalidarono la perizia ordinata dalle procure, furono due e italiani. Uno è di Mantova e l’altro di Castiglione Olona in provincia di Varese. «Si chiamava Paolo Battaini ed è scomparso recentemente. Non accettò immediatamente di difendermi ma si prese qualche giorno per pensarci. Ed io ricordo che allora avevo poco tempo e che il rischio era l’ergastolo. Proprio quando pensavo di rivolgermi altrove ricevetti una sua chiamata. Mi annunciò che avrebbe accettato di occuparsene ma che non era “disposto a dichiarare il falso”. Io gli risposi che sarebbe bastato dichiarare il vero». Zornitta dice che fu proprio Battaini a dimostrare che il lamierino, la prova che secondo gli investigatori lo incriminava, era stata manomessa. «Ma precedenti erano state le anomalie durante l’indagine. Le tracce sul lamierino, che Zernar riteneva compatibili con quelle delle mie forbici, si rivelarono improvvisamente incompatibili».

Il laboratorio di Venezia cominciò ad accusare di manomissione il Ris di Parma, mentre la polizia scientifica di Roma - chiamata anche lei ad analizzare le tracce - indirizzò le colpe su Venezia. «Inizialmente tutte le procure si contendevano l’inchiesta ma da quel momento tutti desideravano abbandonarla». Successivamente anche il lamierino – su cui, secondo gli investigatori, erano state trovate le tracce di Zornitta - risultò non essere lo stesso lamierino dell’esplosione. «E però, in quella occasione, dissero che si trattava solo di un errore fotografico».

Fino ad allora, tutti, si erano fermati a guardare le striature del lamierino ma nessuno aveva osservato l’intero lamierino. «Fu Battaini ad accorgersi e quindi scoprire che in realtà il lamierino dell’incidente probatorio era diverso rispetto a quello utilizzato per muovere l’accusa». Zornitta si riferisce a un’escrescenza di 0,37 millimetri che lo scagionò e fece precipitare Zernar. Il 3 marzo 2009, la procura di Trieste decise di archiviare la posizione di Zornitta. «Ma per dimostrare la mia innocenza bisognava avvalorare la colpevolezza di Zernar».

Il processo contro Zernar, accusato di frode processuale e alterazione di corpo del reato, si è aperto nel 2007 e si è concluso in Cassazione nel 2014. Zernar è stato condannato a due anni di reclusione. «Solo da quella data posso dire di essere innocente». Zornitta all’epoca delle indagini perdette il lavoro. «Ero dirigente d’azienda. Un giorno mi chiamò il proprietario e mi disse che la mia immagine era insostenibile». Si rivolse a un giudice? «Ci pensai, ma l’idea di un altro processo mi fermò». I giornali scrissero che il padre di una compagna di scuola della figlia, impietosito, gli avesse offerto un nuovo impiego. «E anche questo non è vero. Tutti chiamavano i giornali e si dicevano pronti a offrirmi un lavoro. In realtà era solo un modo per farsi pubblicità».

Zornitta oggi lavora come responsabile qualità in un’azienda di tornitura e fresatura. «Un giorno un imprenditore lasciò un avviso presso l’edicola vicino casa. Disse che poteva offrirmi un lavoro ma solo nel caso avessi avuto voglia di rimboccarmi le maniche. Ho accettato. Ho svolto mansioni di geometra ma anche di operaio. Questo è rimasto il mio lavoro. Ringrazio ancora di averne uno ma è chiaro che la mia condizione economica è mutata». Ha provato a cercarne altri? «Fino al 2014 ero ancora Unabomber e nessuno me ne avrebbe offerto uno. Oggi ho quasi 60 anni e a escludermi è l’età».

Durante l’indagine, Zornitta, si fece crescere una barba dura e fitta. «Tutti credettero lo facessi per nascondermi e invece lo feci per essere più riconoscibile. Nessuno poteva più sostenere che il mio obiettivo fosse quello di mimetizzarmi». Zornitta è rimasto ad Azzano Decimo dove nessuno ha mai sospettato di lui. «Sono rimasto perché a questo paese dovevo qualcosa dopo aver ricevuto tutto».

Il presunto Unabomber non è mai stato trovato. «E qui si pensa che ormai sia morto». L’indagine è costata 800 mila euro, sono state raccolte 1500 ore di intercettazioni telefoniche, impiegate “metodologie matematico, algebrico, statistiche”. C’è chi, nel caso Zornitta, ha imbastito un altro processo alla scienza e quindi alla tecnica. «E però da ingegnere posso affermare che non è stata la tecnica a sbagliare ma l’uomo a falsare e mistificare». Dicono che la stessa cosa possa essere accaduta a Massimo Bossetti condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio. «Ho imparato a non pronunciarmi. Ripetono che l’Italia sia il paese dei diritti ma io credo che sia il paese della pena. In 377 articoli di giornale il mio nome è stato accostato alla parola mostro. Non basteranno altri 377 per convincere la gente che sono un innocente. La nostra memoria è solita conservare una menzogna e rimuovere una verità».

Zornitta ha intrapreso una causa civile di risarcimento. «Ma ancora non c’è stata una sentenza. Spero che un giorno, e nel caso ci sia un risarcimento, possa riceverlo mia figlia. L’unica novità importante è stata la promozione dell’agente che manomise il lamierino». Si tratta di Zernar. Nel dicembre del 2016, Zernar è stato infatti promosso da assistente capo a vice sovraintendente. Ai giornalisti ha sempre dichiarato di essere lui la «vera vittima di un errore giudiziario». A Zornitta la procura ha restituito gli attrezzi che gli aveva sequestrato. «Arrugginiti». Ad Azzano Decimo, a volte, «e soprattutto d’estate», qualcuno viene a trovare Zornitta. Dal carcere alcuni detenuti gli spediscono delle lettere. Altri lo invitano a qualche trasmissione televisiva ricevendone un rifiuto. C’è chi lo paragona a Enzo Tortora. «A volte ci penso e credo che a farlo grande, e quindi ricordare, sia stato solo la morte. Senza la morte non sarebbe diventato il "caso Tortora”, ma sarebbe rimasto solo uno dei tanti Zornitta…».



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Carmelo Caruso