Soldato Italiano ferito
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Gli incubi dei soldati italiani

Decine di militari, di ritorno dalle missioni "di pace" soffrono della "Sindrome del Vietnam": depressione, ansia, panico

"Nell’incubo mi sveglio e sono in mimetica su una branda da campo in Afghanistan. A fianco c’è un altro parà, sembra dormire, di spalle. Lo scuoto per chiedergli dove siamo, cosa succede. Lui si gira e ha la faccia dell’attentatore suicida che ci ha fatto saltare in aria. Alla fine si trasforma in un mostro, che apre le fauci e mi divora". Manuel Villani ha 36 anni e si porta la guerra dentro. Nel 2009, durante gli aspri combattimenti contro i talebani, era un paracadutista del 187° reggimento Folgore. La sua colonna è stata travolta da un kamikaze che guidava una macchina minata. Nove anni dopo soffre ancora di disturbi post traumatici da stress (Dpts), la ferita nella mente e nell’anima di tanti militari italiani che hanno combattuto le «guerre» di pace dall’Iraq all’Afghanistan.
Incubi, spinte suicide, crisi di panico, scatti d’ira, depressione, perdita della parola: sintomi dell’orrore della guerra. Una malattia che per vergogna, ignoranza, burocrazia è stata a lungo un tabù. Dal 2009 al 2018 sono stati rimpatriati 222 militari con disturbi psicologici. Dal 2005 al 2011 i casi accertati erano 267. La punta dell’iceberg dello stress post traumatico che esplode anni dopo. Panorama ha raccolto le storie dei soldati italiani perseguitati dalla «sindrome del Vietnam».

Perseguitato dal kamikaze

«Il letto, di notte, è il mio campo di battaglia. Mi sento perseguitato dall’anima dell’attentatore. Rivedo i suoi occhi, l’esplosione e sento l’odore della carne bruciata, del carburante. Per non parlare delle urla dei mie compagni imprigionati fra le lamiere mentre il blindato prende fuoco» racconta Villani, che vive in Veneto. Il 3 luglio 2009, il parà della 4° compagnia Falchi spunta dalla botola di un Lince attaccato alla mitragliatrice. Il convoglio italiano pattuglia la zona di Shindad in Afghanistan. Un minivan accosta e Manuel incrocia lo sguardo del kamikaze al volante. «Trent’anni, senza barba, vestito di bianco. Ci siamo guardati negli occhi e ho pensato: è finita. Sono morto». L’esplosione lo travolge e il blindato si ribalta sul fianco. Con il timpano rotto e ferito al gomito, esce per primo mentre gli altri parà urlano lambiti dalle fiamme del Lince che ha preso fuoco. Villani riesce a tamponare l’incendio e a tirarli fuori. Tutt’attorno i brandelli del kamikaze: «Le budella sul parabrezza, la testa volata a 20 metri di distanza e un cane che azzanna un piede e se lo porta via».
Qualche mese dopo iniziano gli incubi, ma «nonostante il terrore, come una droga, volevo tornare laggiù». Nel 2011 il parà parte di nuovo per l’Afghanistan e la situazione precipita. «Se qualcuno fa una grigliata mi torna in mente l’odore della carne bruciata e vomito. Non riesco più a innamorarmi, non provo emozioni. Quando è morta mia madre, che adoravo, non ho pianto una lacrima» dice Villani. «Due settimane fa sono andato a ritirare un pacco e dal magazzino è arrivata una ventata di aria calda. Ho rivisto l’esplosione, la luce e mi sono paralizzato».

Una moglie in prima linea

Nina ha sposato Tommaso nel 2016, il momento peggiore della malattia, che ha portato l’ex militare, un tempo paracadutista dell’anno, a tentare due volte il suicidio. «L’incubo ricorrente di mio marito è tornare a casa in una bara. Oppure che gli sparano addosso e viene colpito più volte dai proiettili. Una notte, dopo aver urlato nel sonno, si è svegliato di soprassalto e mi ha stretto le mani al collo. Era come in trance» racconta Nina.
L’11 giugno 2009 Tommaso e la sua unità finiscono in un’imboscata. Il parà della Folgore spara all’impazzata dalla torretta del blindato fino a quando arriva il colpo di mortaio. Le schegge lo investono, il viso è bruciato, ma si riprende per tornare a sparare. Solo allora si rende conto che ha la mano destra tranciata e attaccata al braccio solo da un filo di pelle.
«Dopo otto interventi chirurgici torna in caserma, ma emergeno i primi sintomi» racconta la moglie. «Se sale sul blindato si sente male. L’odore della polvere da sparo gli fa venire la nausea». Non vuole ammettere di avere bisogno di aiuto, si vergogna di dirlo al reparto e teme di venire congedato. La situazione esplode a ridosso del Natale 2015 quando lo avvisano di prepararsi a un pronto impiego in Libia. «È crollato travolto da un panico devastante» spiega Nina .« Pochi mesi dopo, quando ero incinta di sette mesi, si è chiuso in bagno buttando giù una valanga di pillole. Sono infermiera e l’ho preso in tempo facendolo vomitare e mettendolo sotto la doccia gelata. La forza l’ho trovata nell’amore che provo per lui».
Il calvario burocratico inizia con la Commissione medico ospedaliera di La Spezia. «Lo hanno trattato come un cane» dice Nina. «Erano anche minacciosi: perché sei spuntato dopo anni? Chi ti ha mandato con la diagnosi di stress post traumatico? Lo sai che perderai il lavoro e avrai problemi con la famiglia? Ci saranno anche dei furbetti che se ne approfittano, ma non Tommaso». L’invalidità legata alla patologia comporta un riconoscimento economico e le casse dello Stato sono sempre vuote. Alla fine la beffa: il disturbo da stress post traumatico è stato riconosciuto, ma non per cause di servizio.

«La mia testa è rimasta in guerra»

C. R. oggi lavora nei ruoli civili previsti per i veterani. In Afghanistan era un artificiere, ma la sua «colpa» è stata rimanere solo contuso in un attentato e non ferito con cicatrici visibili. Il 2 luglio 2011, a Bakwa, il suo mezzo salta in aria e il militare non tornerà più lo stesso. «Quando sono rientrato in Italia pensavo che, nel traffico, l’auto davanti potesse esplodere da un momento all’altro» racconta l’artificiere della Folgore. La moglie va a vivere dai genitori per spingerlo a curarsi. «Di notte urlavo, ma all’inizio non sapevo neanche cosa fosse lo stress post traumatico» dice. «Sognavo sempre di essere in Afghanistan. Con il corpo ero tornato a casa, la testa era rimasta laggiù». In brigata e al Celio gli danno una mano, ma la burocrazia militare lo mortifica.
Per la Difesa solo «il trauma contusivo a gamba e ginocchio sinistro» è legato «all’effetto immediato e diretto dell’evento terroristico» e non il disturbo post traumatico. L’arteficiere deve assumere un avvocato, come molte vittime della sindrome del Vietnam. «Ho avuto il 40 per cento di invalidità e parte dell’elargizione speciale, ma resta l’amaro in bocca per colpa della burocrazia e della Commissione medico ospedaliera di La Spezia. Mi hanno fatto sentire uno schifo».

La foto drammatica

Kabul, 17 settembre 2009, un afghano scatta la foto drammatica del corpo decapitato di un soldato italiano in mezzo alla strada e i blindati Lince sventrati. A fianco del cadavere con la mimetica insanguinata, un parà con la pistola in pugno. Si chiama Ferdinando Buono, oggi ha 39 anni e convive con gli incubi della guerra. Il caporal maggiore scelto del 187°reggimento Folgore è uno dei sopravvissuti del più grave attentato kamikaze in Afghanistan alle nostre truppe: sei paracadutisti massacrati da una macchina minata. «Al momento dell’esplosione un calore fortissimo mi ha colpito in faccia. Poi il bianco del fumo, le lamiere del blindato che si deformano e il corpo di Giandomenico Pistonami che era fuori dalla botola e crolla nell’abitacolo senza la testa. Il sangue sulla mimetica è anche il suo» ricorda Buono.
Lui si stacca un dito per uscire dal blindato. Le vittime sono devastate: un parà senza gambe, un altro tagliato a metà con le budella di fuori. Dopo cinque mesi di convalescenza il parà torna in servizio. «Ho tentato il suicidio lanciandomi da un ponte, ma sono finito in mare, non sugli scogli» racconta Ferdinando, che ha continuato a fare l’istruttore. «Se vedo una scarpa abbandonata penso al piede di uno dei mie amici morti nell’attentato. Rivedo in sogno la scena, ma i soccorsi non arrivano mai». A un certo punto non ce la fa più, lo mandano prima in convalescenza e poi in congedo. Ora lavora nei ruoli civili della Difesa. Per farsi riconoscere l’indennità da stress post traumatico è in causa. In dicembre il giudice ha fissato l’ultima visita per il sopravissuto al massacro.

«Ho l'incubo di spararmi ma non muoio mai»

Jonny D’Andrea era un soccorritore di prima linea, nervi d’acciaio e coraggio da leone per tuffarsi sotto il fuoco a salvare i feriti nelle missioni della brigata Folgore. «Ho visto il sangue, i caduti e mai avrei mai immaginato di vivere il calvario del disturbo post traumatico» dice il veterano. «L’incubo ricorrente è spararmi dentro una macchina e non riuscire comunque a morire».
Il 7 agosto 2011, in Afghanistan, uno dei blindati Lince del convoglio di D’Andrea finisce su una trappola esplosiva. Il soccorritore dei paracadutisti riceve l’ordine di scendere per prestare le prime cure ai feriti. Appena si avvicina al blindato colpito si scatena l’inferno. «Correvo e sentivo i proiettili che mi sfioravano a pochi centimetri. Mi ha salvato Gesù» è convinto D’Andrea, che si carica sulle spalle il ferito più grave portandolo in salvo. Quando cerca di tirare fuori il secondo parà dal blindato «arriva il razzo Rpg, vicinissimo. L’esplosione mi butta a terra. I denti davanti vanno in pezzi, dall’orecchio sinistro non sento nulla e ho lesioni alle vertebre, ma riesco a trascinarmi verso il punto di evacuazione dove arrivano gli elicotteri».
A casa iniziano i flash back. «Non dormo, sudo tutta la notte e sono collerico» dice D’Andrea. Quando è al volante schiva i tombini «perchè ho sempre paura che nascondano una trappola esplosiva». Il soccorritore attende la Croce d’onore e vuole tornare in servizio. «Non sono un giocattolo rotto. E voglio dimostrarlo».

Nome di battaglia Ringhio

Basco amaranto da paracadutista, barba rossiccia, occhi chiari e muscoli da vichingo: Carlo, nome di battaglia Ringhio, è sempre stato un «guerriero». In Iraq si faceva i selfie con il leggendario generale David Petraeus, in Afghanistan prima saltava in aria su un piatto a pressione talebano e poi combatteva cinque ore nell’inferno di Shewan. «Al momento del botto ti senti volare ed entri in una specie di tunnel. Sono attimi, ma quando ho chiuso gli occhi mi sembrava di veder scorrere la mia vita. Le orecchie ti fischiano, senti l’odore di bruciato e il sapore di zolfo in bocca, il sapore dell’Ied (trappola esplosiva ndr)». Poi una gamba ha iniziato a cedere assieme al braccio sinistro. L’esplosione gli aveva schiacciato le vertebre. Una volta in Italia, il chirurgo che lo opera gli dice che è fortunato a non essere rimasto paralizzato. «Quando cominci a pensare la bestia ti assale» spiega Ringhio. «Sogno che finisco sotto attacco e il mio mitra si inceppa». Se sente un’ambulanza scatta come una molla, come fosse sotto i colpi di mortaio a Baghdad.
Racconta Carlo, che fa parte del gruppo sportivo paralimpico della Difesa: «Urlavo la notte e vedevo i pezzi smembrati dei caduti afghani che dovevamo ricomporre. Ogni sera prendo una pillola per dormire. Di giorno mi capita di guidare in mezzo alla strada temendo che nei sacchi dell’immondizia ci sia una bomba».

Il ferito di Nassirya

Il luogotenente in congedo dell’Arma, Vittorio De Rasis, vive in Lazio. È uno dei 19 carabinieri sopravvissuti alla strage di Nassirya provocata da un camion bomba. Non si separa mai da una foto di 15 anni fa, riverso sul cassone di un fuoristrada con il volto insanguinato. Gli iracheni lo stanno portando di corsa all’ospedale. «Più volte al mese ho l’incubo della strage» dice. «Vedo i caduti come Filippo Merlino, che dopo l’esplosione si avvicina barcollando, ma non ce la farà. O l’amico Cosimo Visconti, sopravvissuto. Ricordo la raffica del kalashnikov dei terroristi che sfondano la sbarra con il camion zeppo di tritolo. Sento i colpi della Mg del carabiniere scelto Andrea Filippa. E poi il muro che mi crolla addosso».
Un tuono, i fuochi d’artificio o il tappo dello spumante fanno ripiombare De Rasis nell’angoscia. Lo stress post traumatico gli è stato riconosciuto. «Quando mio figlio esce di casa ho il terrore che venga ucciso in un attentato. L’incubo di Nassiryah non mi abbandonerà». n
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Fausto Biloslavo