Studentesse entrano a scuola
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La dislessia è anche un business

In 4 anni i bambini italiani con qualche "Dsa" (disturbo Specifico di Apprendimento) sono cresciuti del 160%. E lo Stato alle famiglie eroga 300 euro al mese. Ma non è facile averle

Se un bambino ha un disturbo dello sviluppo, dell’apprendimento, del comportamento alimentare, o una qualche disabilità, la sua famiglia riceve dallo Stato, ogni mese, una cifra mensile di quasi 300 euro. Cosa buona e giusta, si direbbe. E di fatto lo è. Ma se quello stesso bambino fa fatica a leggere e scrivere per motivi che nulla c’entrano con un presunto disturbo, se la sua disabilità non è una vera disabilità ma deriva da una falsa diagnosi (o è un «falso positivo»), se la famiglia non avesse diritto o necessità di un sostegno economico, se i controlli fossero poco accurati, ecco, allora quella somma, garantita un po’ a capocchia e un po’ a tutti, diventa un problema. Etico, ed economico per i conti dello Stato.

È quello che sta succedendo in Italia con «l’indennità di frequenza»: una somma prevista dalla legge 289 del 1990 con cui lo Stato eroga 293,75 euro per ogni minore che, per esempio, abbia una diagnosi di Dsa, disturbo specifico di apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia...); di Adhd, disturbo da deficit di attenzione e iperattività; di disturbo del comportamento alimentare, come anoressia o bulimia. O di Bes, Bisogni educativi speciali, ampio contenitore che racchiude i bambini iperattivi, con difficoltà di concentrazione.

Indennità, fino a poco tempo fa, nota alle sole famiglie con queste problematiche. Oggi invece la platea di chi ne ha diritto si sta allargando al punto da rappresentare un allarme per i conti pubblici. Nel 2019 l’Inps ha erogato 166.351 indennità a minori, pari a 48 milioni e 865 mila euro. L’anno precedente erano 155.907 e la somma arrivava a poco più di 45 milioni di euro. Un aumento di tre milioni solo nell’ultimo anno che, secondo tutte le stime, è destinato a crescere sempre più. Con l’aggravante che le lacune normative consentono ampi spazi di manovra per chi vuole intascare l’assegno di quasi 300 euro al mese (3.500 euro all’anno). Per avere diritto all’indennità, infatti, il minore deve avere un reddito inferiore a 4.906,72 euro annui. Cioè tutti. Perché quello della famiglia non conta. Così il figlio di un industriale ha gli stessi diritti di chi con lo stipendio non arriva a fine mese.

Altra nota negativa: le spese che il minore deve sostenere per la riabilitazione necessaria a competere ad armi pari con i compagni di scuola non devono essere certificate. In altre parole, l’Inps non richiede le ricevute di pagamento per eventuali tutor di sostegno, lezioni private, sedute dallo psicologo. Se da un lato è evidente che i 293 euro mensili non bastano a coprire i costi che una famiglia deve sostenere per far fronte alle criticità del figlio, d’altra parte nessun controllo impedisce che questi finanziamenti restino nelle tasche di chi non ha assoluta necessità o intenzione di ricorrere a questi strumenti compensativi.

Un rischio che impone una revisione normativa, anche perché il banco sta per saltare. L’impennata della spesa è dovuta, in gran parte, all’aumento di casi certificati di Dsa, categoria dentro cui finisce un po’ di tutto, dalle reali «neurodiversità» alle carenze del sistema scolastico. Se da un lato, quindi, vengono riconosciute le difficoltà soggettive di alcuni studenti, per altri potrebbe trattarsi di un alibi. Del resto, i dati nazionali stilati dal ministero dell’Istruzione rivelano che il fenomeno è esploso negli ultimi quattro anni. Oggi gli alunni delle scuole italiane con disturbi specifici dell’apprendimento sono 276.109, con picchi del 6 per cento alle medie. La forma più nota di Dsa è la dislessia, che comporta serie difficoltà nella lettura, nella scrittura e nel calcolo, ma anche in alcuni comportamenti come allacciarsi le scarpe o relazionarsi con gli altri bambini. In questo caso le difficoltà sono serie e ben riconoscibili. Ma esistono altre forme di disturbi dell’apprendimento accusati di condizionare la resa scolastica. Come la disgrafia, la pessima calligrafia associata alla difficoltà di riconoscere e scrivere le lettere, la disortografia, che comporta errori di ortografia, e la discalculia, la difficoltà di eseguire calcoli matematici.

L’incremento del numero di certificazioni dal 2015 in poi è da capogiro: quelle relative alla dislessia sono salite da circa 94 mila a 177 mila, segnando un tasso di crescita dell’88,7 per cento; le diagnosi di disgrafia sono passate da 30 mila a 79 mila, con una crescita del 163,4 per cento. Anche il numero di alunni con disortografia certificata è più che raddoppiato, passando da circa 37 mila a 92 mila (+149,3 per cento), mentre gli alunni con discalculia sono aumentati da 33 mila a poco meno di 87 mila (+160,5 per cento).

Non ci sono più i somari, insomma, ma solo allievi con difficoltà? Panorama ha parlato con il componente di una commissione delle Marche chiamata a valutare le certificazioni che le famiglie devono allegare alle richieste di indennità di frequenza. E i sospetti si rivelano fondati. «Per avere queste certificazioni» ci dice la nostra fonte «sono fioriti centri accreditati a pagamento, privati o semi-privati, ai quali conviene che una persona abbia queste patologie: il costo per ottenere la certificazione parte da 300 euro, ma varia da studio a studio».

Per ottenere l’indennità occorre che il minore frequenti la scuola poi, da giugno a settembre, l’erogazione in teoria viene interrotta. «Però è possibile averla anche nei tre mesi di vacanza, presentando l’attestazione di frequenza di un corso presso una struttura di riabilitazione. Ma la legge non fissa il numero minimo di sedute, quindi bastano due o tre lezioni al mese».

Difficile poi valutare seriamente le richieste di bambini stranieri: «Capita che famiglie di immigrati che non parlano una parola di italiano si presentino davanti alla commissione chiedendo l’indennità. Mostrano valutazioni, rilasciate anche da strutture pubbliche, che attestano difficoltà intellettive quando c’è solo un problema di bilinguismo». Sono bambini che in famiglia parlano la loro lingua e fuori si esprimono in italiano, con ovvie difficoltà rispetto ai coetanei. Ma è solo ignoranza della lingua, non un disturbo dell’apprendimento. «In questi casi, io personalemente rifiuto la richiesta, ma noi passiamo per una commissione rigorosa, non so cosa facciano gli altri». 

Ulteriore conferma di errori di valutazione, quando non di veri e propri abusi, arriva da Davide Novara, pedagogista e direttore del Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, che ha scritto un libro denuncia sull’argomento: Non è colpa dei bambini. «Mentre sulle diagnosi di Dsa, i centri pubblici hanno tirato il freno, sono nati tanti centri privati disinvolti, che realizzano neurocertificazioni sui minori la cui validità è assai discutibile. I cosiddetti falsi positivi. C’è un vero business dietro queste etichette».

«Nella comunità scientifica si dibatte proprio di questo» aggiunge Anna Maria Costantino, direttore del reparto di  Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza del Policlinico di Milano. «Non basta un test di verifica per certificare un disturbo specifico dell’apprendimento. Talvolta le segnalazioni si rivelano un falso allarme. Non dimentichiamo che la scuola ha gravi carenze dal punto di vista del potenziamento didattico: potrebbe accadere che parta la segnalazione quando magari sarebbe bastato intervenire per tempo sul programma».

L’inadeguatezza del Servizio sanitario nazionale alimenta il business di centri privati. «I tempi di attesa per le visite» denuncia Andrea Novelli, che all’associazione Aid riceve decine di segnalazioni di disservizi, «arrivano a 12 mesi; l’alternativa è rivolgersi a professionisti privati, ma i costi possono superare i mille euro, e parliamo soltanto delle diagnosi che devono essere redatte da tre specialisti: un neuropsichiatra infantile, uno psicologo e un logopedista. Le spese per la riabilitazione poi spesso non sono rimborsate dal Servizio sanitario e ricadono interamente sulle famiglie e la scuola non è pronta a fronteggiare le dimensioni del fenomeno, che aumenterà nei prossimi anni».

Le lezioni costano 40 euro l’ora. E per ottenere qualche risultato ne servono almeno 20. «Magari sulla base di un falso positivo, un genitore si trova a pagare anche 6 mila euro annui per una serie di trattamenti, logopedia, psicomotricità...» sottolinea Novara.

Panorama ha verificato che gli uffici pubblici dove prenotare una visita specialistica spesso non funzionano. In una Asl di Milano, dove gli studenti con Dsa certificata sono 30 mila, dopo una settimana di tentativi e 43 telefonate a vuoto non siamo riusciti nemmeno a parlare con un operatore.

In un’altra Asl dell’area metropolitana milanese ammettono che il 20 per cento dei bambini o ragazzi con probabile Dsa viene preso in carico soltanto sei mesi dopo la segnalazione. In Regione Lombardia, dove pure hanno appena varato una legge che prevede équipe multidisciplinari per tagliare le liste d’attesa e 5 milioni di stanziamento ad hoc, per la prima visita si aspettano anche più di cinque mesi. In Calabria, invece, il dato non viene nemmeno monitorato.

Chi troppo e chi troppo poco. Non sarà un caso se Valle d’Aosta e Liguria hanno più del 5 per cento di alunni certificati con Dsa (Lombardia il 4,7  per cento, Piemonte 4,8) e in Calabria lo 0,8 per cento (l’1 per cento in Campania e l’1,3 in Sicilia). Ogni Regione adotta un protocollo diverso, ma la sostanza non cambia: servono fino a otto mesi per completare l’iter e poter ottenere una certificazione che riconosca il tipo di disturbo. L’unica scelta resta, dunque, il privato.

Per la professoressa Costantino «mancano servizi, fondi, personale: solamente un bambino con Dsa su due riesce ad avere una diagnosi col Servizio sanitario nazionale, e solo uno su tre accede al trattamento riabilitativo con il sistema pubblico. Tutti gli altri si devono rivolgere a proprie spese ai privati».

L’Inps, da qualche tempo, tenta di arginare il boom incontrollato di richieste con dinieghi che a loro volta alimentano i ricorsi. Gli avvocati fiorentini Francesco Chetoni e Francesca Raffaele sono ormai punti di riferimento a livello nazionale. «Da Bolzano a Palermo abbiamo seguito almeno un centinaio di ricorsi contro la decisione di uffici provinciali Inps di negare l’indennità di frequenza» dice Chetoni. «E la percentuale di azioni legali vinte si aggira intorno al 90 per cento, con punte del 100 per cento in Sicilia».

«Spesso i rigetti non sono nemmeno motivati» aggiunge l’avvocato Raffaele. «Una famiglia che se lo è visto erogare, l’anno dopo non ne ha più diritto, senza un perché. C’è un’evidente lesione dei diritti dei minori più bisognosi».

Le legge infatti non specifica esattamente di quali disturbi il bambino debba soffrire per avere diritto all’indennità, e questo crea confusione. «Le difficoltà di un minore non cessano quando suona la campanella della scuola. Anzi, i costi a carico delle famiglie sono necessari proprio per gestire la vita quotidiana, spesso uno dei genitori deve lasciare il lavoro per seguire il figlio».

E il rischio di abusi? «Posso dire che tutte  le famiglie che seguiamo hanno un reddito basso» replica l’avvocato Chetoni «e che quei 300 euro sono una boccata di ossigeno per bambini con vere necessità».

Sarà certamente vero e il problema è serio. Troppo per essere risolto dalla commissione verificatrice dell’Inps con tre minuti di colloquio e al massimo due domande, una delle quali, in genere, pare sia: «Per quale squadra tifi?».n

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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