«A Bergamo potevamo salvare molte più vite»
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«A Bergamo potevamo salvare molte più vite»

Lo dice a Panorama il medico Bruno Pesenti, che ha scritto il regolamento sanitario per gli ospedali della Bergamasca. Dal suo racconto emergono gravissime negligenze proprio nel luogo dove il contagio poteva essere fermato.

Oltre agli esposti dettagliati di decine di parenti di vittime del comitato «Noi denunceremo» e alle audizioni da parte dei inquirenti orobici dei vertici del governo e dei tecnici che hanno gestito l'emergenza coronavirus, c'è una pista investigativa su cui stanno lavorando tre magistrati guidati dal procuratore di Bergamo, Maria Cristina Rota. Il Nas dei carabinieri di Brescia ha acquisito una serie di documenti che sono stati inseriti nel fascicolo dell'inchiesta per epidemia colposa e altri reati.

Il filone d'indagine è quello che riguarda le procedure messe in atto nell'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, a sei chilometri da Bergamo, sospettato di essere il focolaio d'infezione dell'intera provincia e quindi della regione più colpita d'Europa. Su quelle carte sta scritto cosa doveva essere fatto e i nomi di chi avrebbe dovuto attivarsi. Piani pandemici, piani d'emergenza interna, linee guida di gestione delle emergenze epidemiche... Documenti e circolari che a Bergamo c'erano ma che nessuno ha consultato. Panorama lo ha fatto. Veri e propri manuali che sono stati redatti negli anni per fronteggiare crisi di vario tipo, dai terremoti alle pandemie. Centinaia di pagine che le vecchie Asl, ora trasformate in Asst (Aziende sociosanitarie territoriali) devono redigere e applicare. Protocolli operativi che hanno valore cogente, come ci spiegano gli investigatori che dai quei manuali stanno ricostruendo le gerarchie di comando per contestare le eventuali responsabilità amministrative, civili e penali.

A cominciare dalla mancata osservanza delle norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, ospedali compresi. Gli uffici Inail di Bergamo sono intasati da pratiche di riconoscimento di infortuni sul lavoro da parte di medici e infermieri: 640 quelle arrivate dal 17 marzo, quando il coronavirus è stato riconosciuto malattia professionale, al 24 aprile. Ma è solo la punta dell'iceberg. In cima al quale stanno i 30 medici deceduti per Covid. «Se quei piani fossero stati seguiti» ci dice chi ha firmato uno di quei protocolli «avremmo potuto contenere e limitare i contagi». A parlare è il dottor Bruno Pesenti, oggi in pensione, ma fino al 2018 direttore del Dipartimento igiene e prevenzione sanitaria della Ats di Bergamo. Il suo ultimo regolamento reperibile in rete è datato 2010 («ma è stato sicuramente aggiornato») e gran parte delle indicazioni contenute sono ancora attuali. La terribile conta dei morti e dei malati sarebbe stata diversa «se quei documenti non fossero stati ignorati e dimenticati nei cassetti dalle istituzioni» afferma Pesenti. «Questi piani rappresentano un obbligo di legge, come pure la loro attuazione e devono essere inviati alle prefetture, ai sindaci, ai medici del territorio, alle forze dell'ordine e alle altre istituzioni coinvolte da un possibile piano di emergenza. Invece ognuno andava solo a vedere cosa rischiava se fosse successo qualcosa. In alcuni casi si potrebbe configurare il reato di omissione di atti di ufficio».

Panorama ha interpellato alcune di queste istituzioni per verificare se avessero a portata di mano questi protocolli. La prefettura di Bergamo ha affermato di non conoscerli. La Ats di Bergamo non ha mai risposto alla nostra domanda di produrcene copia, il presidente dell'Ordine dei medici di Bergamo, Guido Marinoni, ci ha dichiarato di non averne mai sentito parlare, come pure il segretario lombardo della Federazione dei medici di famiglia, la dottoressa Paola Pedrini, che abita a Seriate, a due passi dall'ospedale di Alzano. Eppure questi manuali d'emergenza sono reperibili su internet o nelle banche dati delle Ats e Asst. Coincidenza, non è così per la Agenzia di tutela della salute (Ats) di Bergamo né per la Asst Bergamo Est, che comprende proprio l'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo.

Ma quali sono le indicazioni contenute in questi documenti ignorati? Ci aiuta a leggerli il dottor Pesenti. Si parla di «medici sentinella» sul territorio che devono segnalare infezioni sospette, di percorsi differenti e stanze dedicate negli ospedali per pazienti infetti, di precise procedure di vestizione per i sanitari che lavorano con malati contagiosi, di reperimento e stoccaggio di dispositivi di protezione come le mascherine, di sanificazione dei reparti. All'ospedale di Alzano, invece, i primi pazienti entrati con chiari sintomi Covid-19 sono stati trasferiti dal Pronto soccorso alla Radiologia, da Medicina generale ad altri reparti, mischiandosi ai pazienti e alle centinaia di persone che affollano ogni ospedale.

Il personale sanitario non solo non aveva sufficienti dispositivi di protezione, ma ha tardato a indossare i pochi che c'erano. Gli stessi parenti dei pazienti sono entrati e usciti dai reparti propagando il virus nella provincia e, da lì, fino a Milano e Brescia. A pagina 24 del regolamento del dottor Pesenti sta scritto: «Il documento comprende le procedure in relazione al modello organizzativo del sistema di gestione sanitaria della Asl, formalizzato con atto dirigenziale del Direttore sanitario». Che nel caso della Asst Bergamo Est, che include l'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, si chiama Roberto Cosentina, già noto alle cronache giudiziarie perché condannato in primo grado a due anni e sei mesi dal Tribunale di Busto Arsizio per omessa denuncia e favoreggiamento nei confronti del viceprimario del Pronto soccorso dell'ospedale di Saronno, Leonardo Cazzaniga, autonominatosi «dottor Morte», responsabile dell'uccisione, in reparto, di 12 pazienti e condannato all'ergastolo insieme con la sua compagna, l'infermiera Laura Tironi.

Ad Alzano le funzioni di controllo e vigilanza sull'operato di Cosentina sono in capo al suo Direttore generale, Francesco Locati. Sul loro ruolo nella gestione dell'emergenza, e su quella del Direttore medico Giuseppe Marzulli, oltre alla procura, vuole fare chiarezza anche la Ats di Bergamo. Che ha affidato a un legale, l'avvocato Angelo Capelli, una sorta di consulenza preventiva in caso di coinvolgimento penale della stessa Ats. Il primo compito indicato dal Direttore generale della Ats Massimo Giupponi al consulente è proprio quello di «verificare la correttezza delle azioni poste in essere dai soggetti a vario titoli coinvolti nella gestione dell'emergenza in ambito provinciale (…) e accertare le responsabilità nella gestione dell'emergenza Covid nell'ospedale di Alzano». I cui vertici, però, in una relazione del 3 aprile, lamentano la scarsa comunicazione nell'emergenza proprio con la Ats di Bergamo.

La ricostruzione cronologica dei primi ingressi dei pazienti infetti negli ospedali al centro della tragica storia italiana del coronavirus suscita domande inquietanti. Mattia, il paziente 1 italiano, viene scoperto alle 21 e 20 di giovedì 20 febbraio. L'intuizione del medico anestesista di Codogno, Annalisa Malara, insignita col titolo di cavaliere dal presidente della Repubblica, fa scattare i protocolli di emergenza. Ospedale chiuso, reparti sanificati con rigore, pazienti isolati per quanto possibile. Chi scrive, la notte successiva, era nell'Unità di crisi di Regione Lombardia e ha assistito alla frenetica caccia ai possibili contagiati e al loro trasporto in isolamento nei reparti di Malattie infettive.

Diversa storia per l'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, che ospitava già i suoi primi contagiati dalla settimana precedente: l'83enne Ernesto Ravelli, dimesso il 19 febbraio con chiari sintomi Covid-19 e poi ricoverato di nuovo il 22, il coetaneo Franco Orlandi, in ospedale già dal 15, e il 66enne Alfredo Criserà, che entra in Pronto soccorso il 20 febbraio. I loro sono i primi tamponi positivi della provincia. Ma fino ad allora, e siamo al 22, nessuno pensa al coronavirus, nonostante governo e Regione abbiano diramato vari stati di allarme.

Numerose testimonianze di medici, pazienti e parenti raccontano di una gestione raffazzonata, di circolazione di persone dentro e fuori l'ospedale. Di una chiusura del Pronto soccorso di appena poche ore, su indicazione della stessa Regione perché ormai l'epidemia si stava diffondendo e non è stato ritenuto opportuno chiudere un presidio sanitario. E di sanificazioni che la Asst Bergamo Est difende come effettuata «secondo i protocolli esistenti». Ma non secondo quelli più rigorosi previsti in caso di epidemie. In confronto, oggi la provincia di Lodi, dove ha sede l'ospedale di Codogno, conta un quarto dei contagi e dei morti di quella di Bergamo.

Anche il direttore del servizio epidemiologia dell'Inail, Sergio Iavicoli, dichiara a Panorama che l'applicazione delle regole avrebbe contenuto il contagio, e che «nella gestione del rischio l'attenzione alle procedure non è certamente stata una priorità».

Luca Fusco, presidente del comitato «Noi denunceremo», afferma di aver interpellato molti medici e sanitari e che «questi dicono di non aver mai visto i piani pandemici e i protocolli per le emergenze». Non a caso tra e decine di esposti presentati dall'associazione, molti ne chiedono conto.

E lo chiederanno anche al presidente della Repubblica quando, il 28 giugno, finalmente visiterà la città più colpita del continente.

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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