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Calcio

Così la Serie A rivaluta i suoi marchi (guadagnando 700 milioni di euro)

E' un'operazione di bilancio resa possibile dalle misure d'emergenza post Covid. Abbiamo chiesto a un economista se si tratta di maquillage o se risponde a una reale fotografia del valore dei nostri club

Nelle settimane in cui la politica italiana si è divisa sul decreto salva calcio che ha consentito alle società sportive, calcio compreso, di spalmare in 60 mesi i debiti fiscali con una mora del 3% - provvedimento che ha spaccato maggioranza e opposizione -, il pallone italiano ha goduto di un altro aiuto per reggere gli urti della crisi. Un intervento da oltre 700 milioni di euro di impatto sui bilanci dei club della Serie A originato dal DL Agosto del 2020 e che ha visto allineate molte delle società della massima serie nel rivalutare i propri marchi incidendo sul patrimonio netto.

L’ultimo in ordine di tempo è stato il Milan che ha portato il valore del proprio brand a poco meno di 200 milioni di euro. Prima avevano aderito Inter, Napoli, Sampdoria, Torino, Udinese, Genoa, Cagliari e Lecce.

Un regalo ai soliti ricchi del pallone? Panorama.it si è fatta spiegare il meccanismo da Massimo De Buglio, docente di bilancio presso l’Università Bocconi di Milano e partner di Wepartner, advisory indipendente specializzata, tra l’altro, in operazioni di M&A e nella valutazione di aziende e brand calcistici.

Qual è la definizione corretta di rivalutazione del marchio?

“Bisogna fare una distinzione tra società che fanno il bilancio utilizzando i principi contabili italiani e quelle che invece lo fanno con i principi internazionali. Sono due mondi separati che applicano regole diverse. Chi utilizza le norme del nostro Codice civile e i principi nazionali ha usufruito di questa possibilità, che è un’opzione non riguardante solo il mondo del calcio ma data a tutte le aziende a seguito della pandemia Covid, per consentire di rivalutare qualsiasi attività immobilizzata iscrivendola a bilancio in un momento straordinario di difficoltà”.

Massimo De Buglio (Wepartner)

Quindi nessun favore al calcio?

“No. Si è trattato di un provvedimento destinato a tutti ma eccezionale, perché chiusa questa finestra non si potrà ripetere se non in presenza di altre misure decise dal governo”.

I club hanno potuto iscrivere rivalutazioni importanti anche perché le precedenti risalivano all’inizio degli anni Duemila.

“Sono passate tutte attraverso perizie. L’Inter è salita a 218 milioni di euro, il Milan a 174, il Napoli a 75, l’Udinese a 68, il Torino a 60 e la Sampdoria 39. Se uno guarda altri settori come la moda ci sono state rivalutazioni anche significativamente più ampie rispetto al settore del calcio. Tra i tanti provvedimenti che si sono succeduti nel corso degli anni in favore del pallone, questo differisce proprio perché è stato in realtà esteso a tutti”.

E’ un intervento che aiuta nell’immediato a non dover affrontare la crisi, ma non migliora strutturalmente l’industria del calcio che rimane con i suoi vecchi problemi?

“La rivalutazione del marchio garantisce un beneficio patrimoniale ma non interviene sui risultati reddituali e finanziari delle società. Molti hanno accumulato perdite in questi anni con l’obbligo di intervento da parte delle proprietà per ricapitalizzare e questa opzione aiuta. Sul piano reddituale e finanziario invece la fotografia rimane quella di un mondo abbastanza fragile. E questo resta il problema maggiore del nostro calcio”.

E’ un intervento patologico?

“Sarei più soft, in quanto provvedimenti simili potrebbero apparire patologici in un contesto, quale quello italiano, dove hanno storicamente prevalso il principio di prudenza e il costo storico nelle valutazioni di bilancio. Peraltro, tale giudizio si stempera se si osserva la struttura dei principi internazionali, che va quasi in senso opposto, privilegiando il fair value e consentendo una piena valutazione delle attività in bilancio. Dunque, è ragionevole che, se una perizia lo dimostra, il valore del marchio o di altri asset possa essere adeguato a quello di mercato”.

L’accusa è che le società di calcio abbiano approfittato per abbellire i conti, legittimamente, ma senza risolvere i problemi.

“Se l’adeguamento è fatto correttamente non vedo alcuna forzatura”.

Perché sul marchio, che è un bene immateriale, e non su altre voci?

“Nel mondo del calcio, chi non ha stadi di proprietà non ha grande spazio per rivalutare beni immobili e lo stesso vale per attività finanziarie e partecipazioni. Rimangono il marchio o altre attività immateriali solitamente meno rilevanti come la library. Il brand è spesso l’elemento di maggior valore; non a caso i marchi del pallone vengono periodicamente classificati e valutati anche da alcuni operatori internazionali specializzati”.

Perché non stimare il valore della rosa dei calciatori, che sono quasi l’unica proprietà dei club di calcio?

“Il principio base è che i giocatori sono iscritti a bilancio in funzione del costo del cartellino e del suo processo di ammortamento. È un riferimento oggettivo, salvo ovviamente casi patologici. Però il valore di bilancio molto spesso non fotografa il valore reale di mercato del calciatore in un determinato momento (basti pensare ai talenti che si sono affermati partendo dalle giovanili del medesimo club, i quali, non provenendo da altre squadre, risultano in bilancio a valori prossimi a zero). Quest’ultimo infatti dipende da molti altri fattori ed è difficile trovare un metodo oggettivo per quantificarlo. Per questo trovare un perito esterno e indipendente che consenta a una società di rivalutare il proprio parco calciatori diventa quasi impossibile”.

Quanto valgono i club italiani oggi?

“Se valuto una qualsiasi azienda, nel mio lavoro quotidiano, utilizzo metodi codificati che si basano sulle prospettive di reddito e sui flussi di cassa attesi o ancora sul confronto con i valori espressi per aziende comparabili compravendute in periodi recenti. Il mondo del calcio è più complicato. I club fanno budget annuali, ma faticano a fare business plan previsionali di medio periodo, in quanto i risultati economici sono significativamente dipendenti dalle performance sportive. E anche il confronto tra club è difficile. Un esempio sulle quotate? La Lazio vale oggi in Borsa circa il 30% del suo fatturato mentre il Manchester United vale quasi 6 volte i suoi ricavi: quale indicatore prendo come riferimento?”.

Quindi non esiste un metodo per valutarle?

“A oggi facciamo fatica a trovare nel settore correlazioni significative tra dati di bilancio e valori economici; forse per stimare una cifra che sia adeguata converrebbe tornare ai vecchi metodi di valutazione delle aziende, basati sul patrimonio netto “aggiustato” per tenere contro del valore di mercato, in luogo di quello contabile, degli asset principali: marchio, rosa ed eventuale stadio o centro sportivo”.

Il calcio italiano è storicamente in perdita, soprattutto i grandi club.

“In molti casi è la realtà. Inoltre, quando ci sono gli utili, bisognerebbe interrogarsi sulla qualità di questi utili. In principio un’azienda dovrebbe essere redditizia nella sua gestione caratteristica e dunque nel suo core business. Spesso, nel calcio, le performance positive sono associate a plusvalenze derivanti dalla cessione di calciatori e allora nascono domande senza risposta univoca. Ad esempio, queste plusvalenze sono ricavi strutturali o straordinari? Forse per una provinciale, che basa il suo modello di business sulla valorizzazione del vivaio, sono strutturali e ripetibili, per una big no, ma non è semplice immaginare un sistema unico in cui convivano regole e modelli di business così diversi”.

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Giovanni Capuano