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Brexit: perché nasce l'euroscetticismo

La fiducia nelle istituzioni Ue era superiore al 50 per cento prima delle crisi finanziarie ma poi è precipitata

Tenere insieme un'unione economica o monetaria non è facile. Considerato che gli Stati Uniti per farlo sono passati attraverso una guerra civile e che, a tutt'oggi, non consentono ai loro stati di indire un referendum, possiamo dire che il processo di costruzione dell'Unione Europea è stato tutto sommato abbastanza civile e democratico.

I numeri della Brexit e le recenti dichiarazioni dei politici britannici (confuse, per usare un eufemismo) mostrano che si è trattato in parte di un incidente inatteso (o dovuto alle promesse fasulle fatte in campagna dai "Leavers").

Sono invece chiari i costi inflitti ai britannici (e agli europei) da parte di politici opportunistici: multipli rispetto ai contributi del Regno Unito verso l'Unione europea (8 miliardi netti nel 2015, pari all'1 per cento della spesa pubblica britannica!) e considerando che il Regno Unito aveva esercitato l'opt-out per molte delle politiche dell'Unione.

È tuttavia doveroso fare una diagnosi dell'euroscetticismo e dello stato dell'Unione. È chiaro che la comunicazione tedesca non è eccelsa, tuttavia l'Europa non è la Germania. Se è vero che la Germania è inflessibile nella disciplina fiscale, ognuno dei 28 Paesi (27 fra poco) è rappresentato democraticamente nelle istituzioni europee.

Chi negli ultimi giorni ha detto che "non si possono trattare gli inglesi come i greci" non ha capito che uno dei principi fondatori dell'Unione è la fondamentale uguaglianza dei suoi membri, in funzione di regole decise in comune.

L'Eurobarometer surveymostra che la fiducia nelle istituzioni europee era superiore al 50 per cento fino alle crisi finanziarie, per poi scendere sotto il 50 (nel 2015 il 37 per cento ha un'immagine positiva, il 38 un'immagine neutrale e solo il 23 un'immagine negativa).

Confrontando con la fiducia nei governi nazionali si scopre che i cittadini si fidano di più delle istituzioni europee e che la fiducia nei governi nazionali è scesa molto dopo le crisi.

Anche in altri Paesi (inclusi gli Stati Uniti) la fiducia scende fortemente dopo le crisi (negli Usa sono al 19 per cento quelli che si fidano del governo contro l'81 che non si fidano, Gallup survey). In Europa, i politici nazionali hanno spesso la tendenza ad attribuire all'Ue i fallimenti delle loro politiche.

L'Europa viene spesso accusata di lentezza burocratica. Il processo decisionale è determinato da lunghi dibattiti. Il Regno Unito ha spesso contribuito a rallentare le decisioni. La stragrande maggioranza delle regole europee sono discusse per anni. Una volta approvate hanno spesso un periodo di transizione per consentire ai Paesi di adattarsi.

In questo contesto la richiesta di un Paese di rivedere regolamentazioni approvate e recepite è un atto di irresponsabilità perchè costringe altri 27 Paesi a risedersi al tavolo. I movimenti anti-euro si collocano agli estremi dello spettro politico, sono critici verso l'establishment, si alimentano del disagio economico e sarebbero ugualmente pericolosi anche senza l'Ue (anzi di più).

La partecipazione all'Unione è volontaria. Molti Paesi, come la Polonia, vi hanno partecipato con entusiasmo fino a quando estraevano benefici (ingenti trasferimenti) salvo diventare euroscettici quando si è trattato di contribuire all'allocazione dei rifugiati.

Alla fine, bisognerebbe chiedersi se staremmo meglio senza l'Ue: se la Grecia, la Spagna, il Portogallo, e così via avrebbero evitato o gestito meglio le crisi del debito o bancarie, se i paesi dell'Est sarebbe cresciuti agli stessi ritmi o se l'Italia avrebbe avuto un debito più sostenibile e un tasso di crescita maggiore... È impossibile dirlo con certezza, ma forse non è difficile intuirlo.

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Ester Faia

Nata nel 1973, laurea in Economia alla Bocconi e Ph.D. alla New York University, Ester Faia ha ricoperto diversi incarichi accademici e presso organismi internazionali. È professore ordinario alla Goethe University of Francoforte, senior fellow del Center for Financial Studies e research professor al Kiel Institute. È autrice di numerose pubblicazioni in qualificate riviste accademiche internazionali. Ha svolto incarichi per diverse banche centrali, centri di ricerca (tra i quali il CEPREMAP di Parigi e il Globalization Center della Dallas Fed) e università straniere. Ha ricevuto prestigiosi premi da istituzioni come l'Unione Europea, la Banca centrale europea e la Fondazione tedesca della ricerca. È consigliere di Buzzi Unicem dal 2012.

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