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Alzheimer: come i disturbi del sonno possono aiutare la diagnosi precoce

Secondo uno studio, l'analisi delle abitudini notturne può rappresentare un potenziale biomarcatore

Il morbo di Alzheimer può cominciare a infliggere ferite al cervello di chi ne è affetto anche 15-20 anni prima che siano evidenti le manifestazioni cliniche della malattia. Quando comincia la perdita di memoria, insomma, la malattia potrebbe in realtà essere iniziata già da parecchio. Trovare metodi possibilmente poco costosi e non invasivi, per identificare l'Alzheimer prima possibile è un aspetto della ricerca considerato fondamentale per poter sperare di arrivare un giorno a rallentarne se non addirittura a bloccarne la progressione.

Biomarcatori per scoprirlo prima

Due studi interessanti a questo riguardo sono stati pubblicati negli ultimi giorni su due autorevolissime riviste scientifiche: Nature e JAMA Neurology. La prima è una ricerca condotta da un team composto da scienziati giapponesi e australiani che annuncia di aver messo a punto un esame del sangue che sarebbe in grado di identificare l'accumulo di proteine tossiche legate alla malattia. Il test, si legge nell'articolo di Nature, è risultato accurato al 90% e dimostra che è possibile cercare nel sangue, in modo facile ed economico, ciò che richiederebbe esami più costosi e complicati per essere cercato nel cervello.

L'altro studio, americano, svolto da ricercatori della Washington University a St Louis, Missouri, ha invece evidenziato come i disturbi del sonno possano anch'essi essere un segno precoce di Alzheimer. Per esaminare il collegamento tra sonno e Alzheimer gli autori hanno monitorato i cicli del sonno di 189 adulti con un'età media di 66 anni senza alcun segno di disturbi cognitivi. Le persone indossavano dispositivi che ne monitoravano i movimenti giorno e notte, per capire quanto e quando dormivano.

Sonnellini forieri di sventura?

Più di un quarto dei partecipanti allo studio (50) presentava anomalie nelle scansioni cerebrali o nel liquido cerebrospinale che facevano ipotizzare il futuro sviluppo della demenza. Proprio questo sottogruppo aveva schemi del sonno più frammentati. Erik S. Musiek, neurologo della Scuola di Medicina dell'Università di Washington, spiega: "Lo studio dimostra davvero che è possibile rilevare questi cambiamenti nei ritmi circadiani molto, molto presto nella malattia di Alzheimer - prima che le persone abbiano qualche sintomo".

I risultati dello studio potrebbero indicare che avere un sonno spezzettato può contribuire allo sviluppo della malattia di Alzheimer. In uno studio separato, il team ha alterato i geni che controllano i ritmi circadiani nei topi e ha scoperto che i topi costretti a un sonno più frammentato hanno sviluppato le caratteristiche placche cerebrali di proteina Beta amiloide dell'Alzheimer più rapidamente dei loro pari che non avevano subìto la modificazione genetica. Ovviamente, mettono le mani avanti gli autori, ciò che accade nei topi non è detto che si verifichi anche nell'uomo.

Comprendere causa ed effetto

Ma che si intende per sonno spezzettato? "Non è che le persone nello studio avessero una carenza di sonno", ha spiegato Musiek. "Ma il loro sonno tendeva ad essere frammentato. Dormire per otto ore di notte è molto diverso dall'ottenere otto ore di sonno in sonnellini diurni di un'ora ciascuno".

Precedenti studi, condotti sempre dalla Washington University, su persone e animali, avevano rilevato che i livelli di amiloide fluttuano in modi prevedibili durante il giorno e la notte. I livelli diminuiscono durante il sonno e diversi studi hanno dimostrato che essi aumentano quando il sonno è interrotto o quando le persone non accumulano abbastanza sonno profondo, secondo la ricerca condotta da Yo-El Ju nel 2013.

"In questo nuovo studio, abbiamo scoperto che le persone con malattia di Alzheimer preclinica avevano una maggiore frammentazione nei loro schemi di attività circadiani, con più periodi di inattività o sonno durante il giorno e più periodi di attività durante la notte", ha detto Ju, assistente professore di neurologia .

Sia Musiek che Ju hanno spiegato che è troppo presto per capire quale sia la causa e quale l'effetto, ovvero se i ritmi circadiani "sballati" mettano a rischio di malattia di Alzheimer o se i cambiamenti del morbo di Alzheimer interferiscano con i ritmi circadiani. "Per lo meno, queste interruzioni nei ritmi circadiani possono servire come biomarcatore per la malattia preclinica", ha aggiunto Ju.

Ciò che quindi la ricerca di Musiek e dei suoi collaboratori mostra è che studiare il ritmo circadiano è un potenziale nuovo modo di trattare l'Alzheimer, di cui c'è sicuramente molto bisogno, visto che la ricerca di un farmaco per combattere le placche proteiche finora non pare aver dato frutti.

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Marta Buonadonna