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“Il 41 bis? Solo tortura e falsi pentimenti”

Giuseppe De Cristofaro, senatore di Sel, critica da sinistra il regime carcerario duro antimafioso. “Il presunto patto Stato-mafia? Lo escludo”

 “Può uno stato democratico usare un regime particolarmente duro di carcere non per evitare che il detenuto comunichi con l'esterno, ma per il solo fine di farlo pentire? Non lo può fare. Siamo unici in Europa a applicare norme così ingiuste".
Usa parole forti e controcorrente sul regime del 41 bis il senatore Giuseppe De Cristofaro, vicepresidente del gruppo misto-Sinistra ecologia e libertà. Oltre a far parte della commissione parlamentare Antimafia, De Cristofaro è vicepresidente della commissione Affari esteri e membro della commissione straordinaria per la Tutela dei diritti umani.
Nonostante l'appartenenza allo stesso gruppo politico, il senatore De Cristofaro sembra essere lontano anni luce dalle posizioni di Claudio Fava, vicepresidente dell'Antimafia.

Senatore De Cristofaro, lei sostiene che il 41 bis è tortura se usato per indurre il pentimento?
Lo dico per esperienza diretta. E ho questa opportunità di guardare al 41 bis da due punti di vista sull’efficacia e sulla sicurezza di soggetti pericolosi, ma anche alla tutela dei diritti umani. Perché io non dimentico che quando il 41 bis venne applicato per la prima volta nel nostro Paese, cioè dopo la morte di Giovanni Falcone, si disse in Parlamento che doveva essere un sistema assolutamente transitorio. Il 41 bis era nato come regime eccezionale: la risposta dello Stato alle stragi, per poi ritornare a una gestione più normale. Ma poi è divenuto stabile. Io penso che oggi sia necessaria una riflessione per rompere il tabù.   


Lei ha detto: “mentre in commissione Diritti umani guardiamo prevalentemente il diritto umano del detenuto, in Antimafia ci soffermiamo sull'efficacia del carcere duro”. Come superare la discrasia?
Il 41 bis deve essere usato per evitare contatti con l’esterno di un capomafia, per eludere flussi di informazione. Questo non lo metto in discussione. Quel che invece non mi convince del regime carcerario duro è mettere il detenuto una condizione psicologica di particolare costrizione, in modo da indurlo al pentimento. Così non si hanno veri pentimenti, ma richieste di collaborazione con la giustizia, che servono solo a evitare l’isolamento. Il decreto Scotti-Martelli in realtà era nato proprio per questo proposito, non detto, ma implicito. Ma questa normativa, che sollevò molti dubbi fin dall’epoca, è contraria alla nostra Costituzione. Allora diciamo apertamente che se la ratio del 41 bis è ed era quella di costringere al pentimento, ripeto è una tortura.


Lei dice, insomma, che lo Stato ha usato il regime carcerario duro solo per indurre certi mafiosi a collaborare con la giustizia?
Io penso che lo Stato, se ha concezione democratica, se ha un articolo della Costituzione che dice che le pene devono educare, non può applicare un regime di carcere così duro da indurre a un pentimento “finto”, pur di uscire da quello stesso regime. Senza tener conto, che con l’applicazione del decreto Scotti-Martelli, entrarono in isolamento carcerario persone che non erano mai state affiliate o consociate alla criminalità organizzata mafiosa. Uno scandalo.

Che comporta molti rischi.
Lo Stato democratico deve applicare le leggi, ma non costringere un detenuto, per le condizioni disumane in cui vive, a un pentimento che non è maturato da una sua coscienza personale e intima. Per questo abbiamo collaboratori di giustizia che, pur di uscire dal regime carcerario, dicono tutto e il contrario di tutto. E la colpa è dello Stato.

Le intercettazioni su Totò Riina in cella, disposte dalla Procura di Palermo durante i colloqui con il suo “compagno d’aria” nel cortile del carcere di Opera, hanno occupato per mesi le copertine dei giornali, vanificando di fatto il 41 bis cui è sottoposto Riina dal giorno del suo arresto, il 15 gennaio 1993: è stato come permettere a Riina di pubblicare i suoi messaggi all’esterno. Che ne pensa?
È un fatto vergognoso. Si è vanificata l’applicazione del 41 bis a Riina. Non c’è dubbio che sia vicenda scandalosa. E andremo fino in fondo. Voglio sapere chi ha divulgato le intercettazioni alla stampa.

Secondo lei, l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso nel ’93 non rinnovò alcuni 41 bis per dare un segnale di “distensione” a Cosa Nostra, come ipotizzano i pm palermitani nel processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”?
Onestamente non credo che Conso, insigne giurista di fama internazionale, abbia revocato o non rinnovato alcuni decreti del 41 bis, per una sorta di “pax” mafiosa. Lo escludo in maniera categorica. E dico di più: contesto questa forma mentis che si è sviluppata da vari anni, che è una mera semplificazione. Cioè se uno contesta il 41 bis, con ragioni valide, sembra che faccia un favore alla mafia e quindi diventa automaticamente mafioso. Mentre chi sposa in toto la normativa è dalla parte buona della società. Questo è un pregiudizio che va combattuto.

Lei crede a un patto tra cosa nostra e Stato, durante il biennio 92-93, in cambio di revoche del 41 bis?
Lo escludo sicuramente.

E allora cosa pensa del processo palermitano, sulla presunta trattativa Stato-mafia, che vede sul banco degli imputati boss e uomini di Stato, che hanno catturato tali criminali?
Preferisco non commentare…

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Anna Germoni