Moby Prince: strage senza verità
La sera del 10 aprile 1991 avvenne la collisione fra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo, in cui morirono 140 persone. Per il disastro s'intrecciano ipotesi di terrorismo, affari e vendette della criminalità. Mentre le Procure tornano a indagare, un libro
va in cerca di una diversa - e vera - motivazione di questo mistero italiano.
- Moby Prince: strage senza verità
- L'incendio della petroliera Haven il giorno dopo
Le Procure di Roma e di Livorno hanno già provveduto a riaprire un fascicolo processuale, rimettendo in moto un'indagine che, da anni, sembrava ampiamente definita con un'archiviazione e un niente di fatto. In Parlamento è già stata depositata la proposta per dare vita a una commissione speciale d'inchiesta che, sulla base dei risultati di un analogo e precedente lavoro, possa approfondire le troppe questioni rimaste aperte.
Quello della Moby Prince - il 10 aprile 1991- non è soltanto uno spaventoso incidente con il peso doloroso di 140 vittime (75 passeggeri e 65 membri d'equipaggio) ma prende le sembianze di un attentato terroristico che, per i confini ancora troppo labili, va ad allungare la lista già corposa dei «misteri di Stato». Ad accendere i riflettori sulla vicenda contribuisce il libro del giornalista Federico Zatti che, con Mondadori, pubblica Una strana nebbia, dove in 170 pagine smonta la tesi ufficialmente definita e costruisce ipotesi di tutt'altro segno.
La nebbia che fornisce il pretesto per il titolo è la prima protagonista del saggio perché venne considerata la causa dello scontro fra il traghetto Moby Prince (stava uscendo dal porto di Livorno) e la petroliera Agip Abruzzo che, dal giorno prima, era all'ancora nelle acque destinate alla sosta delle grandi navi. L'improvvisa mancanza di visibilità - si spiegò - avrebbe provocato l'alterazione di qualche grado della rotta, con le fiancate delle due imbarcazioni a schiantarsi fra loro. In realtà, di nebbia, non ce n'era.
Una prima questione - tuttavia dirimente - consiste nel domandarsi perché sia stato necessario «inventarsi» una circostanza di per sé risolutiva ma che, dopo un controllo accurato, è diventata l'elemento più appariscente di un'indagine insabbiata. Federico Zatti ricostruisce minuziosamente lo scontro. A cominciare dal ricordo che, quella notte, il Barcellona e la Juventus stavano giocando la partita di semifinale di Coppa delle coppe. Proprio nei minuti dell'incidente, Pierluigi Casiraghi aveva portato in vantaggio i bianconeri «rubando» il pallone al limite dell'area avversaria e mettendolo in rete (prodezza inutile perché, nella ripresa, i catalani di gol ne fecero due, rimontando e capovolgendo lo svantaggio iniziale).
Come possono scontrarsi due navigli all'imbocco di un porto? Senza conoscere nel dettaglio le procedure nautiche, ci si immagina lo strisciare di fiancate a velocità modesta tenendo conto degli spazi angusti di movimento. Invece il traghetto Moby Prince è stato lanciato alla velocità massima e, anziché dirigersi verso l'uscita della baia, ha virato di quasi 90 gradi per infilare la propria prua dentro la «pancia» della Agip Abruzzo. Possibile catalogare come «incidente» una dinamica così anomala?
Sul traghetto era stato imbarcato un camion carico di esplosivo - probabilmente il semtex utilizzato dai corpi speciali dell'esercito - che ha lanciato il rimorchio verso il soffitto del parcheggio sfondandolo. A cosa doveva servire e dov'era destinato? I collegamenti radiofonici fra Moby Prince e capitaneria di porto erano diventati impossibili perché le antenne di trasmissione erano state sabotate. Non potevano essere ascoltate nemmeno le richieste d'aiuto, in arrivo dal traghetto, che lanciava il «mayday» d'emergenza. Tutto intorno stava bruciando perché l'Agip Abruzzo con 80.000 tonnellate di carburante infiammabile era diventata un'immensa torcia galleggiante. Chi le ha strappate, dunque, le antenne?
Tutti questi elementi escludono la possibilità che si sia trattato di un incidente «normale» e incoraggia l'ipotesi che si abbia a che fare con un attentato terroristico. Il traghetto non è andato a urtare contro la petroliera (per disgrazia) ma le è stato lanciato contro (deliberatamente) utilizzando tutta la forza che i motori potevano sprigionare. Oltre questa che sembrerebbe una certezza, solo ipotesi. Chi erano i terroristi? Con che disegno? Per quale obiettivo?
Federico Zatti ritiene che il movente più plausibile sia da cercarsi in un contesto mafioso. La criminalità organizzata era riuscita a infiltrarsi in Toscana. Alcune speculazioni come la costruzione di un hotel - il Marble - a Carrara, in occasione dei Mondiali di calcio del 1990 avevano consentito di acquisire i contributi pubblici per una mezza dozzina di miliardi (di lire, di allora) senza che il progetto andasse oltre lo scheletro di cinque piani di pilastri affastellati, uno sull'altro.
E, ancor più ardito, il tentativo di impadronirsi delle cave di marmo, riciclando tutti gli scarti della produzione da convertire in carbonato di calcio per un giro di affari di 870 miliardi (sempre lire, di allora). Per definizione, i metodi mafiosi prevedono che, dove non sia possibile ottenere i risultati previsti con procedure legittime, si ricorra alla lupara. Infatti, un paio di delitti inizialmente «incomprensibili» potrebbero risultare del tutto intellegibili. L'ingegner Alberto Dazzi (coinvolto nel progetto di quell'hotel abbandonato a se stesso) mettendo in moto la propria automobile innescò anche una carica di tritolo collocata sul pianale e saltò in aria nell'esplosione.
Alessio Gozzani, che si era assunto il ruolo di sindacalista delle cooperative di cavatori (che tentavano di resistere all'invadenza degli imprenditori siciliani), venne affrontato mentre beveva un caffè all'autogrill e lasciato a terra con quattro fucilate nell'addome. Morì dopo un mese d'agonia senza riprendere conoscenza. Per quel delitto venne condannato un delinquentello del posto che sempre sostenne di essere innocente. E, più tardi, un pentito di mafia affermò che, in effetti, era finito in carcere un innocente. Non sapeva - il pentito - chi materialmente avesse sparato ma poteva assicurare che la cosiddetta verità giudiziaria si era risolta in un errore.
Anche la salma dell'ingegner Serafino Ferruzzi, trafugata dalla tomba e mai più ritrovata, non sarebbe un ricatto orchestrato per spillare quattrini alla famiglia, quanto piuttosto un «avvertimento» destinato a chi era in grado di comprendere. Con questo perimetro ridisegnato, allargando lo spettro di riferimento, l'incidente fra Moby Prince e Agip Abruzzo si configura come un attentato intimidatorio. Quando la malavita organizzata vuole «avvertire» qualcuno - la tesi di Zatti - gli mette una tanica di benzina sull'uscio di casa e gli butta dentro un fiammifero acceso. L'esplosione dovrebbe mettere sull'avviso l'interessato e riportarlo a più miti consigli. In questo caso la tanica era la petroliera e il traghetto è stato utilizzato per svolgere le funzioni del fiammifero.
E come gli attentatori si dileguano immediatamente dopo, così i terroristi a Livorno sarebbero scesi dalla Moby Prince per allontanarsi su una paranza che li attendeva. Qualcuno ha anche detto di averli visti e non è stato preso in considerazione. La trasmissione Mixer di Giovanni Minoli ne aveva parlato ma poi si è trovata senza testimonianze dirette e ha dovuto fare marcia indietro.
Però i misteri non possono rimanerlo all'infinito. Cercare la verità è doveroso per Angelo Canu che, minuti prima di morire, aveva ripreso le due figlie che giocavano nella cabina. È un atto dovuto per quei due carabinieri in licenza che credevano di tornare a casa per qualche giorno. Per i tre valtellinesi che immaginavano una vacanza per «provare» le nuove attrezzature da sub. Per i due sposini di Lodi in luna di miele. Lo chiede anche Alessio Bertrand, unico sopravvissuto che, allora, non era ancora maggiorenne e si adattava alle mansioni di mozzo mentre adesso ha superato la mezza età e già si prepara per la pensione.
L'incendio della petroliera Haven il giorno dopo la tragedia della Moby Prince
La petroliera Milford Haven brucia ad un miglio e mezzo al largo di Arenzano (Getty Images)
Due tragedie del mare in meno di ventiquattro ore si consumarono a distanza di sole 80 miglia nautiche l'una dall'altra. A Livorno, la sera del 10 aprile 1991, la tragica collisione tra il traghetto della NavArMa "Moby Prince" e la petroliera "Agip Abruzzo" si era appena consumata ed i mezzi di soccorso erano ancora intenti a domare le fiamme sviluppate sul traghetto diventato una bara di metallo incandescente per 140 uomini, quando nella tarda mattinata del giorno seguente una petroliera prendeva fuoco al largo del porto di Genova minacciando un gravissimo disastro ecologico.
La nave cisterna "Milford Haven" battente bandiera cipriota della società Amoco era catalogata dai registri navali come VLCC ("Very Large Crude Carrier), ossia una maxi-petroliera. L' 11 aprile 1991 la nave trasportava 230.000 tonnellate di greggio iraniano, parzialmente scaricato nella piattaforma della Multedo, situata a 11 km al largo del porto di Genova. Dopo le operazioni, la petroliera si era sganciata per procedere alle manovre di trasbordo del carico residuo da una stiva all'altra quando poco dopo le 12:30 in una delle stive si verificò una violentissima esplosione che uccise sul colpo cinque uomini dell'equipaggio, tra cui il comandante Petros Grigorakakis. L' incidente si verificò al largo di Voltri e la petroliera, in preda alle fiamme e alla deriva iniziò a spostarsi in direzione di Savona alla distanza di oltre 7 miglia da terra. Grazie a condizioni favorevoli del mare la Haven fu agganciata il giorno successivo dal rimorchiatore "Olanda" per poterla avvicinare alla costa e facilitare l'intervento dei soccorsi, mentre dalle enormi stive proseguiva ininterrotto lo sversamento di tonnellate di greggio che minacciavano le coste liguri, tanto da spingere l'allora ministro dell'Ambiente Giorgio Ruffolo a dichiarare lo stato di emergenza. Mentre le operazioni di rimorchio procedevano, la Haven perse la prua mentre si trovava a 1,5 miglia al largo di Arenzano con il petrolio che cominciava ad invadere il tratto costiero verso la riviera di Ponente. Alle 9:30 del mattino del 13 aprile si verificò la prima devastante esplosione che trasformò la Haven e il mare circostante in un'isola di fiamme alte oltre 100 metri e una colonna di fumo alta più di 400, visibile chiaramente dalle immagini riportate dai satelliti. La paura crebbe con le successive esplosioni verificatesi a breve distanza dalla prima, perché il timore era quello che la pancia della Haven potesse riversare in mare, spezzandosi, le oltre 100.000 tonnellate di petrolio ancora nelle stive. Lo spiegamento di mezzi di soccorso fu impressionante, con unità giunte da tutta italia che risposero contemporaneamente a quelle già impegnate a Livorno sulla Moby Prince. Mentre in cielo volteggiavano gli elicotteri attorno alla Haven lavoravano 26 unità navali tra Vigili del Fuoco, Guardia costiera e Marina Militare. Fu per un caso fortunato e grazie anche alle condizioni meteo favorevoli che il peggio non si verificò. Alle 10 del mattino del 14 aprile, la poppa ancora fuori dall'acqua della Haven sparì per sempre alla vista. La petroliera era affondata senza spezzarsi e si adagiò sul fondale di fronte ad Arenzano ad una profondità di circa 85 metri ed è oggi uno dei più grandi relitti visitabili dai sub.
Una curiosità storica riguarda la "maledizione" delle petroliere gemelle della Haven, la quale prima di affondare nel Mar Ligure era stata danneggiata nel 1988 da un missile nel corso della guerra Iran-Iraq, mentre la Amoco "Cadiz" causò una dei più gravi disastri ecologici della storia quando il 16 marzo 1978 affondò riversando sulle coste della Bretagna centinaia di migliaia di litri di greggio. Le gemelle "Maria Alejandra" e "Mycene" subirono la stessa tragica sorte. La prima affondò in soli 40 secondi il 4 marzo 1980 al largo delle coste dell'Africa Occidentale a causa di un'esplosione dovuta la malfunzionamento del sistema di controllo dei gas inerti, la seconda colò a picco al largo delle coste del Senegal il 3 aprile 1980, appena un mese dopo la gemella "Maria Alejandra" portando con sé la vita di 38 uomini. Undici anni dopo, toccherà alla superstite Haven.
Il video in apertura è del Corpo Nazionale Vigili del Fuoco (www.vigilfuoco.tv)