1984, lo spot capolavoro di Apple che ha cambiato per sempre il modo di fare pubblicità
Il 22 gennaio 1984, durante la finale del Super Bowl, la CBS trasmise lo storico spot del primo Apple Macintosh. In quei 60 secondi, Apple non pubblicizzava semplicemente un computer: annunciava una rivoluzione culturale
Sono trascorsi 41 anni da quando i Washington Redskins e i Los Angeles Raiders hanno giocato la diciottesima edizione del Super Bowl, la finale del campionato di football americano, disputata nello stadio di Tampa, in Florida.
La partita, trasmessa dalla CBS, è stata vista da 77 milioni di telespettatori. I Raiders portarono a casa una vittoria schiacciante (38-9). Eppure, la mattina seguente, non era il football a monopolizzare le conversazioni. Qualcosa di completamente diverso aveva catturato l’immaginazione del pubblico: uno spot pubblicitario di 60 secondi, distante anni luce da touchdown e palloni ovali.
Si trattava dello spot del primo Macintosh di Apple, un personal computer che il suo visionario creatore, Steve Jobs, aveva concepito come “rivoluzionario”, “coraggioso” e “ribelle”. La scelta di lanciarlo durante un intervallo del Super Bowl del 1984 si rivelò perfettamente in linea con lo spirito innovativo del co-fondatore di Apple.
Lo spot
La pubblicità dipinge un futuro distopico in cui una massa anonima di persone avanza in silenzio verso una vasta sala, accompagnata dalla voce imperiosa di un’autorità che proclama la supremazia dell’“unificazione del pensiero”.
“Siamo un solo popolo, con una sola volontà, una sola determinazione, una sola causa” dichiara l’uomo che appare su un enorme maxischermo, simbolo di oppressione e controllo. Ma questa scena di conformismo totalitario viene improvvisamente infranta dall’irrompere di una donna in pantaloncini rossi e canotta bianca. Con passo deciso e un martello tra le mani, corre verso la sala in cui sta avvenendo la proiezione, ignorando le guardie che tentano invano di fermarla. Con un gesto potente e liberatorio, la donna scaglia il martello contro lo schermo, che esplode a causa dell’impatto, distruggendo l’immagine del regime autoritario.

L’intero spot è un chiaro riferimento alla società totalitaria immaginata da George Orwell nel suo romanzo “1984”, in cui un regime oppressivo - noto come “Big Brother” - reprime la libertà individuale e manipola la verità attraverso una sorveglianza costante e pervasiva.
A differenza di quanto avviene in “1984” di Orwell, in cui la tecnologia viene utilizzata per sorvegliare e spiare in modo invasivo i movimenti e le conversazioni delle persone, Apple con il suo spot intendeva ribaltare completamente questa visione della tecnologia. Il nuovo Macintosh non sarebbe stato uno strumento di controllo, ma di emancipazione: un’arma per liberare l’uomo dal giogo delle grandi corporazioni che dominavano il mercato informatico.
Per Steve Jobs, il “Grande Fratello” non era altro che IBM, che nel 1984 era la principale azienda produttrice di computer e deteneva il monopolio incontrastato del settore controllando oltre il 90% del mercato globale. Conosciuta anche come “Big Blue”, IBM incarnava per Jobs il potere centralizzato e autoritario contro cui Apple intendeva ribellarsi. Il Macintosh, quindi, si presentava non solo come un prodotto, ma come un simbolo di rottura: l’occasione di sottrarsi al dominio di un gigante tecnologico e di abbracciare un futuro in cui la tecnologia fosse al servizio della creatività e della libertà individuale.
La battaglia per la messa in onda
Oggi considerato un capolavoro senza tempo, lo spot di Apple fu accolto con grande timore dal consiglio di amministrazione dell’azienda al momento della sua presentazione (40 anni fa). “C’è stato un silenzio incredulo quando è stato mostrato per la prima volta - ha raccontato John Sculley, all’epoca CEO di Apple -. Due membri del board si sono messi le mani nei capelli e hanno detto: "Non trasmetterete questa cosa, vero?’”.
A preoccupare non era soltanto la trama inquietante, il tono provocatorio e l’attacco implicito a IBM, ma anche il fatto che nello spot non c’era assolutamente traccia del prodotto. Al di là di un piccolo logo stilizzato sulla canotta della protagonista, il Macintosh non veniva mai mostrato. Una pubblicità del genere, così astratta quasi come un’opera d’arte, non si era mai vista prima d’allora.
Un’altra particolarità sorprendente è che nessuno degli attori di “1984” era una celebrità. La donna in pantaloncini rossi e canotta bianca era Anya Major, una modella britannica sconosciuta, scelta non per la notorietà ma per la sua abilità atletica: era l’unica tra le candidate in grado di lanciare il martello con la forza e la precisione richieste. Il volto del temibile “Big Brother”, invece, apparteneva a David Graham, un doppiatore noto per aver prestato la voce ai Dalek nella leggendaria serie televisiva Doctor Who.
Ma la vera star dello spot era dietro la macchina da presa: Ridley Scott. Famoso per aver diretto capolavori come Alien (1979) e Blade Runner (1982), Scott era il regista perfetto – secondo Jobs - per tradurre in immagini la visione futuristica e ribelle di Apple. Eppure, all’epoca, Scott non aveva idea di chi fosse Steve Jobs. Quando gli venne proposto di girare uno spot per l’azienda di Cupertino, pare abbia risposto con un ironico: “Chi cazzo è Steve Jobs?” Per Scott, il nome Apple evocava piuttosto la storica etichetta discografica dei Beatles, non certo una giovane azienda di computer.
Ad ogni modo, il suo coinvolgimento si rivelò decisivo: fu lui a decidere di reclutare una comunità di skinhead londinesi come comparse per rappresentare la massa anonima e oppressa dello spot. “Erano dei delinquenti - ricordano alcuni membri della troupe - Il terzo giorno hanno iniziato a tirarsi pietre l’uno contro l’altro”.
Nonostante il talento di Ridley Scott e l’entusiasmo di Steve Jobs, il consiglio di amministrazione di Apple continuava a considerare la pubblicità una mossa azzardata. Lee Clow, direttore creativo dello spot, ricorda: “Pensavano che fosse una follia irresponsabile e minacciarono di bloccare i fondi necessari alla messa in onda. Ma Jobs e l’altro co-fondatore dell’azienda, Steve Wozniak, erano talmente determinati che arrivarono a offrire di pagare personalmente metà della spesa. Fu quello il punto di svolta.”
Fred Goldberg, che all’epoca gestiva le campagne pubblicitarie di Apple, raccontò che il consiglio temeva ripercussioni pesanti. “IBM dominava il mercato: il 98% delle aziende usava i loro PC. Non sembrava una cosa molto intelligente da fare, vale a dire prendere a schiaffi l’azienda leader del mercato. Il consiglio era preoccupato di come l’avrebbero presa gli investitori. E di come avrebbero reagito i consumatori. Era palese il fatto che tutti avrebbero associato il "Big Brother" a "Big Blue"”.
Steve Jobs, però, non era disposto a compromessi. Non solo insistette per trasmettere lo spot durante il Super Bowl, ma si assicurò che venisse diffuso anche nelle settimane precedenti: almeno 13 emittenti locali mandarono in onda “1984”. Jobs ha spinto affinché tra queste ci fosse anche un'emittente di Boca Raton, una città della Florida con meno di centomila abitanti. La scelta non era casuale: Boca Raton ospitava il quartier generale di IBM. Per Jobs, trasmettere il messaggio proprio sotto il “naso” del colosso informatico aveva un valore profondamente simbolico. Lo spot non era soltanto una pubblicità: era una sfida al monopolio, e soprattutto un manifesto della visione di Apple, che ambiva a ridisegnare il futuro della tecnologia.
L’impatto culturale di “1984”
L’agenzia pubblicitaria Chiat/Day, incaricata di dare vita alla visione di Apple, aveva inizialmente acquistato 90 secondi di spazio pubblicitario dalla CBS per trasmettere lo spot del Macintosh. Tuttavia, le crescenti pressioni del consiglio di amministrazione, deciso a ridimensionare un progetto considerato troppo rischioso, portarono a una drastica riduzione: “1984” fu condensato in soli 60 secondi. Ma, come spesso accade, l’essenzialità non tolse forza al messaggio. Al contrario, quel minuto di immagini iconiche fu sufficiente per consacrare lo spot a un successo senza tempo, trasformandolo in un vero e proprio culto della pubblicità.
Eppure, all’epoca, i segnali non erano incoraggianti. Le ricerche di mercato commissionate da Apple prevedevano un esito tutt’altro che promettente. Secondo l’Advertising Specialty Institute (ASI), che si è occupato di studiare l’efficacia dello spot Apple, le possibilità che “1984” si traducesse in un impulso concreto per le vendite del Macintosh erano bassissime. Nella scala predittiva di 43 punti che l’ASI aveva ideato per predire quanto sarebbe stata efficace una pubblicità, “1984” aveva raccolto appena 5 punti. Il punteggio medio, in quel periodo, era 29.
E a dirla tutta il Macintosh del 1984 non ha venduto molto. Ma non per colpa dello spot. All’epoca, il New York Times lo definì “rivoluzionario” per la sua interfaccia grafica, che abbandonava le rigide righe di comando in favore di icone intuitive e facili da utilizzare. Tuttavia, il Macintosh del 1984 era vittima delle sue stesse ambizioni: i più critici arrivarono a soprannominarlo “il tostapane beige” perché per farlo funzionare bisognava sostituire frequentemente i suoi floppy disk. Alla fine del 1984 il flop era lampante: Apple riusciva a vendere appena 10.000 unità al mese, un risultato ben lontano dalle aspettative.
Tuttavia, la creatura tanto amata da Steve Jobs è ricordata per aver cambiato il modo in cui le persone usano i computer. E non solo: il Macintosh viene ancora oggi ricordato anche per aver cambiato il Superbowl. Prima della sua messa in onda, le pubblicità durante l’evento erano considerate poco più di uno spazio per semplici annunci. Ma con l’irruzione dello spot di Apple, il Super Bowl divenne il palcoscenico privilegiato per lanciare le campagne pubblicitarie più creative e spettacolari, dando vita a una vera e propria tradizione culturale.
Nonostante le iniziali resistenze, il genio visionario di Steve Jobs e l’audacia di Ridley Scott hanno dimostrato che la pubblicità può essere molto più di uno strumento di vendita. Possono essere arte, provocazione e manifesto ideologico. E quel minuto durante il Super Bowl del 1984 non solo sfidò le convenzioni, ma le riscrisse, lasciando un’eredità che ancora oggi ispira e influenza.