«Ho lottato un po’ contro il rumore, poi mi sono buttato sul divano coi nervi quasi straziati, silenzio dopo le dieci, ma incapace ormai di lavorare», scrive Kafka nei Diari, ed è solo una delle testimonianze numerosissime della ferita che i rumori procuravano alla sua mente.
Altrove dirà che «più profonda ci si scava la fossa, più silenzio si trova»: come fosse un’acqua nel deserto, il silenzio, la fresca fonte della vita sotto l’implacabile morso mortifero dell’arsura.
Come l’altro grande “scapolo” (che è anche il titolo di un racconto di Kafka), il nevrotico Carlo Emilio Gadda (quanta somiglianza tra il suono interno dei loro cognomi e di entrambi con quell’altro, Samsa, crittografia del primo), riversava nell’inchiostro la polifonia incontrollata, l’ecolalia ultraumana che avrebbe voluto raschiare dal mondo.
