Tornare come prima, dopo un incidente, un ictus o un intervento, grazie ad avatar, videogiochi, e mondi immaginari. È la nuova frontiera della medicina, sempre più utilizzata negli ospedali.
Oggi Pietro ha 56 anni. Gestisce un bar in provincia di Venezia ed è un noto arbitro internazionale di biliardo. Ne aveva 44 quando è stato colpito da un ictus. I suoi sogni sembravano andati in fumo. Grazie a un percorso di riabilitazione che sfrutta le proprietà della realtà virtuale, non solo ha recuperato le sue funzioni motorie ma ha ripreso la sua vivace attività sociale.
«Dopo un ictus, questi risultati non sono frequenti» dichiara soddisfatto Andrea Turolla, responsabile del Laboratorio di Tecnologie riabilitative al San Camillo Irccs di Venezia, dove l’uomo è stato curato.
Pietro è un «virtualmente guarito». E non è l’unico. Marta, 50 anni, è stata operata alla colonna vertebrale. Dopo un mese, la gamba sinistra era debole e con segni di spasticità, specialmente ai muscoli. La donna si muoveva con grande paura, utilizzando un deambulatore.
Al reparto di Neuroriabilitazione dell’Istituto Humanitas di Milano, i medici hanno utilizzato un protocollo basato, anch’esso, sulla realtà virtuale. Sul corpo di Marta sono stati apposti trasduttori magnetici che riproducevano i suoi movimenti in 3D sullo schermo. Come in un videogame, la donna interagiva con un avatar: doveva raggiungere dei bersagli e poi giocare con un pallone virtuale, usando entrambe le gambe. «La paziente era un’appassionata di calcio» racconta Roberto Gatti, responsabile di Fisioterapia presso Humanitas e docente alla Humanitas University. «L’esercizio-gioco le ricordava le ore trascorse a giocare così con i figli piccoli. Dopo sole due settimane, è stata in grado, senza timori, di camminare con una sola stampella anche per lunghi tratti e di salire e scendere le scale aiutandosi con il corrimano».
Il vantaggio degli stimoli «immaginati», sempre più utilizzati in medicina nel complesso percorso di riabilitazione dopo un ictus, un incidente stradale, un intervento chirurgico, è la loro capacità di attivare in modo intenso e mirato il sistema motorio. Altre caratteristiche vincenti: il grado di immersività e componenti spaziali che la realtà virtuale esalta rispetto alle modalità bidimensionali.
Così, utilizzando appositi dispositivi, il paziente si immerge in un mondo artificiale fatto di colori, personaggi, luci, suoni. Compie specifici gesti studiati per migliorare le abilità motorie, mentre il medico ne monitora i movimenti: può parlare con lui, correggerlo, vedere ciò che sta osservando e controllarne i progressi. Questo metodo, come si diceva, è stato testato per diverse patologie: dall’ictus ai traumi cranici, dalla sclerosi multipla al Parkinson, dalla perdita di un arto alla paralisi cerebrale infantile.
Come si «somministra» la realtà virtuale? Non c’è bisogno di stanze piene di schermi, si usano visori simili a maschere da sub. «Sono strumenti che fino a cinque anni fa costavano un occhio della testa, oggi poche centinaia di euro e sono diffusissimi nel mondo dei videogiochi» dice Pietro Avanzini, ingegnere all’Istituto di Neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche, all’Unità di Parma.
Qui, come altrove, un’équipe multidisciplinare di ingegneri, informatici, grafici, neurologi e fisioterapisti ha il compito di creare movimenti in tre dimensioni, registrando la cinematica di gesti eseguiti correttamente da soggetti sani, trasferendola poi su un avatar umanoide. Sembra futuristico, ma da 10 anni tutti i cartoni animati sono prodotti in questo modo. «Non abbiamo bisogno di registrare milioni di video e gigabyte di informazioni. Ci bastano piccolissimi file relativi a un singolo movimento. Tramite appositi codici, il movimento viene trasferito all’avatar che lo riproduce» continua Avanzini.
Per permettere all’osservatore di immedesimarsi il più possibile, si possono personalizzare alcune caratteristiche come la prospettiva, la velocità delle azioni, l’aspetto dell’avatar e l’ambiente. «C’è una miriade di elementi grafici che affondano nella psicologia e nella fisiologia del paziente e nelle sue capacità e oggi, grazie alla digitalizzazione dell’esperienza, possono essere manipolati» aggiunge lo scienziato.
È uno strumento di frontiera cui è possibile applicare specifici protocolli riabilitativi. «Tra questi, merita particolare attenzione la terapia basata sull’osservazione delle azioni, la Action observation treatment, di cui ci occupiamo nel nostro laboratorio» dice Arturo Nuara, neurologo del Dipartimento neuroscienze del Cnr, sempre all’Unità di Parma. È una tecnica di training che ha come base scientifica il meccanismo dei «neuroni specchio». «Si tratta di un principio di funzionamento cerebrale che trasforma la rappresentazione percettiva delle azioni compiute dagli altri in una rappresentazione motoria interna al nostro cervello, corrispondente all’azione che stiamo osservando» spiega Giacomo Rizzolatti, professore emerito all’Università di Parma che, insieme al suo team, negli anni Novanta scoprì l’esistenza dei neuroni specchio, che si attivano quando si compiono determinati azioni o si vedono compiere da altri. La ripetuta osservazione delle azioni da perfezionare, seguita dalla loro immaginazione, è in grado di promuovere quei fenomeni di plasticità cerebrale che permettono di migliorare la performance motoria: il cardine dell’Action observation treatment.
Soprattutto applicata ai bambini, questa «cura tecnologica» riesce a coinvolgerli dal punto di vista emotivo e motivazionale. «Abbiamo sfruttato per la prima volta l’interazione fra pari, ovvero con gli stessi problemi, come elemento attivo della terapia» dice Nuara. È, per esempio, la storia del piccolo Lorenzo, 8 anni, affetto da deficit motorio all’arto superiore a causa di una paralisi cerebrale infantile unilaterale. Osservando e imitando una serie di giochi di prestigio eseguiti da un attore, per poi riprodurli in collegamento digitale con un’altra bambina, Lorenzo ha migliorato la propria manualità. «Carlotta, che aveva la sua stessa malattia in forma un po’ più lieve, trainava Lorenzo verso il miglioramento. E alla fine della sessione quotidiana i bambini non volevano smettere» racconta Nuara. Di giorno in giorno venivano proposti esercizi di difficoltà crescente.
«Con questo tipo di trattamento si possono potenziare le abilità manuali, con maggiori chance se il bambino interagisce con un compagno di capacità superiori rispetto alle proprie». È ciò che in psicologia si chiama «zona di sviluppo prossimo», cioè quel campo di apprendimento che sfruttiamo nell’interazione con un individuo più bravo di noi.
Al San Camillo Irccs di Venezia la realtà virtuale è utilizzata soprattutto per la riabilitazione dell’arto inferiore e superiore dopo un ictus. Gli esercizi-gioco vengono svolti sia in ospedale sia a domicilio. «Consegniamo al paziente una valigetta con sensori e monitor. Il fisioterapista si collega con il paziente a casa. In ospedale, invece, usiamo visori oppure un dispositivo con un grande monitor. Il malato indossa guanti o calzari che gli permettono di vedersi immerso nello schermo. Ha ampia possibilità di movimento, “a 6 gradi di libertà” come accade nel metaverso di Facebook, ma con tecnologie e sensori molto più avanzati» precisa Turolla. Il recupero delle funzioni motorie «è superiore di almeno il 10 per cento rispetto alla terapia standard. Per l’ictus, sono necessarie 15 ore di riabilitazione, un’ora al giorno per almeno tre settimane. È come se fosse un farmaco, c’è una dose necessaria per raggiungere l’effetto clinico. Ma i risultati possono essere straordinari».
