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Autismo: quei ragazzi dimenticati nel Regno Unito

Autismo: quei ragazzi dimenticati nel Regno Unito

Reclusi per anni in strutture private, spesso senza un’assistenza adeguata. È la condizione di migliaia di giovani autistici. Un decennio fa uno scandalo sembrava aver scosso opinione pubblica e politici. Ma gli interessi sono forti. E da allora poco è cambiato.


Il salotto di casa di Pam e Roy Hickmott a Brighton è pieno di fotografie di Tom, uno dei loro figli. Immagini di lui da piccolo, sorridente, insieme a mamma e papà, Eppoi altre, nell’età che precede l’adolescenza, mentre festeggia il compleanno e gioca con i fratelli. Testimonianze di una vita uguale a quella di tante altre famiglie, che si rompe bruscamente, quando Tony viene portato via da casa e collocato in un’unità ospedaliera specializzata riservata alle persone autistiche. All’epoca ha poco più di 22 anni, vi rimarrà per altri 21.

Oggi, di anni ne ha 44 e nei suoi occhi spenti non c’è ombra del ragazzo che è stato. Due giorni alla settimana i suoi genitori, ormai ottantenni, si alzano la mattina presto per arrivare all’ospedale alle 11, puntuali per la loro visita. «Le persone autistiche devono seguire una precisa routine, per loro è fondamentale» hanno spiegato ai giornali che li hanno intervistati dopo che un giudice ha ritenuto che il loro caso fosse «di pubblico interesse» e quindi se ne potesse finalmente parlare.

Già nel 2013 Tony è stato ritenuto idoneo a venir inserito in una struttura esterna all’ospedale, più vicina alla casa dei parenti, ma nonostante le decine di riunioni tra i signori Hickmott e le autorità locali di Brighton, non è stata ancora trovata una soluzione residenziale per lui, che è quindi rimasto dov’era. E ogni giorno, durante la telefonata quotidiana con la madre, le chiede se può tornare a casa.

Nel dicembre dello scorso anno, un’inchiesta giornalistica della Bbc ha rivelato che Tony era uno dei 100 pazienti che hanno trascorso più di vent’anni della loro vita reclusi in queste unità di trattamento speciale – in cui in realtà dovrebbero rimanere soltanto per brevi periodi – completamente separati dal mondo, dalla comunità, da tutto quello che è loro familiare.

Molti vengono sedati o sottoposti a pratiche restrittive. Almeno 350 vi hanno trascorso più di un decennio e attualmente il medesimo trattamento è riservato a più di 2 mila pazienti in tutto il Regno Unito, che hanno la sola colpa di essere autistici o disabili.

In questi luoghi vengono soddisfatte solo le loro necessità di base. Phil Devine, un dipendente che ha lavorato tra 2015 e 2017 nella struttura dove si trovava Tony, ha raccontato a un programma in tv che «era il paziente più solo di tutto l’ospedale». Giorno dopo giorno, veniva nutrito e lavato e nulla di più. Raccontare le loro storie, far venire alla luce queste realtà sommerse in Inghilterra e in Galles, è ancora terribilmente difficile.

Le famiglie temono ritorsioni dai gestori delle strutture private, generosamente finanziate dal servizio sanitario, che talvolta sono veri lager istituzionalizzati. Persino le scuole, ormai piuttosto numerose, che si occupano dell’insegnamento scolastico con programmi specifici per bambini autistici (la prima fu inaugurata a Londra nel 1999 dallo scrittore Nick Hornby e frequentata dal figlio Adam) proteggono come rottweiler la privacy degli studenti. Il governo britannico, però, è a conoscenza della disturbante realtà, almeno dal 2011.

In quell’anno andò in onda un filmato dei terribili e frequenti abusi che avvenivano nell’ospedale Winterbourne View, una struttura ospedaliera vicino a Bristol dall’aspetto esterno impeccabile, dove invece la vita poteva diventare un inferno. In seguito a quel reportage vennero arrestati 12 dipendendenti dello staff, il proprietario della struttura si profuse in scuse, ma non riuscì a evitarne la chiusura.

Emerse soprattutto che, prima che un’infermiera del Winterbourne si decidesse a parlare ai media, le autorità locali competenti del South Gloucestershire avevano ricevuto ben 19 lettere di denuncia relative alla condotta di alcuni dipendenti ma avevano fatto orecchie da mercante. Storie che ricordano quelle raccontate sullo schermo da Milos Forman in Qualcuno volò sul nido del cuculo in un’epoca in cui (cinematograficamente parlando), quando si pensa alle persone autistiche, viene in mente l’esilarante e commovente genietto Sheldon Cooper della serie Bing Bang Theory.

In seguito allo scandalo del Winterbourne, il governo britannico nel 2012 si è impegnato a ridurre drasticamente il numero delle persone con disabilità (in cui rientrano ancora quelle autistiche) «detenute» negli ospedali specializzati, ma è stato fatto ben poco. La National Autistic Society, nel luglio dello scorso anno, denunciava che mentre nel 2015 la percentuale di autistici costretti negli ospedali era del 38%, ora è salita al 58.

La scrittrice Alexis Quinn ha dedicato un libro alla sua esperienza di persona autistica chiusa nei vari reparti di trattamento speciale inglesi dove è rimasta per tre anni, dopo esservi entrata volontariamente in seguito alla nascita della figlia, credendo di dovervi restare solo per un breve periodo. Il suo è il racconto terrificante di giornate infinite, trascorse senza ricevere supporto terapeutico, anzi. «Mi venivano somministrate anche 14 pastiglie al giorno, tra cui antipsicotici, pur non avendo mai sofferto di psicosi. Le visite del cosiddetto “team di crisi” avvenivano a caso, senza -pianificazione e questo aggiungeva stress allo stress. Avrei avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse senza giudicare i miei comportamenti e ricostruisse una routine in cui mi fosse più facile vivere».

Rebecca Fish, ricercatrice della Lancaster University, ha lavorato in passato in unità come quelle descritta dalla Quinn. «Si tratta di reparti in cui le donne sperimentano problemi anziché migliorare» dice a Panorama. «Il rumore continuo, la mancanza di una vera organizzazione del quotidiano e di trattamenti studiati per i singoli rendono impossibile qualsiasi passo in avanti. Queste persone andrebbero trattate fuori da reparti privati, per i quali quasi sempre il Servizio sanitario sborsa milioni di sterline. In realtà le strutture esterne sono rarissime e insufficienti anche oggi, e molti rimangono bloccate nei reparti speciali per anni».

È un cortocircuito malato, difficile da interrompere anche per motivi finanziari. I luoghi deputati a trattamenti specializzati che consentono un rientro in comunità sono pochissimi e poiché dovrebbero venir finanziati con i fondi delle autorità locali, queste ultime – i cui bilanci sono sempre più risicati – hanno pochissimo interesse a togliere i pazienti dalle strutture private che, a loro volta, ci guadagnano a tenere i letti perennemente occupati.

Ma tutto questo non accadrebbe se non fosse consentito da una vecchia legge, il Mental Health Act del 1983, che permette di fatto il trattamento sanitario obbligatorio e la detenzione in ospedale per tutti i disabili, tra cui gli autistici, che possono nuocere a se stessi e agli altri. La sua riforma procede a rilento e gli ulteriori 90 milioni di sterline destinati di recente ai servizi comunitari locali sono una goccia nel mare.

Così la famiglia di Elliott, un giovane autistico di 26 anni, probabilmente dovrà aspettare più dei quattro anni già passati prima che il figlio possa essere dimesso dall’ospedale dove si trova, a centinaia di chilometri da casa. «Ormai lui non ce la fa più» racconta la sorella Beckii «soffre terribilmente di nostalgia, è sempre spaventato e non sa che cosa sta accadendo». L’ex ministro conservatore della Giustizia Robert Buckland, di recente, ha riportato il problema all’attenzione del Parlamento scusandosi per non aver fatto abbastanza su questo fronte quando ancora faceva parte del governo. Chissà se se ne sarebbe accorto, se non avesse avuto anche lui una figlia autistica.

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